Non è semplice mettersi a parlare di un pittore straordinario come fu Vincent van Gogh; è un compito decisamente arduo di cui sono perfettamente conscia. Ma dal momento che la sua arte mi ha sempre colpito visivamente in maniera coinvolgente, ho deciso di affrontare lo stesso l’argomento parlando non solo dell’artista a grandi linee, ma soprattutto facendo parlare lui stesso, attraverso la corrispondenza ch’egli tenne con suo fratello Theo maggiormente , ma anche con sua sorella e qualche amico pittore. Nelle parole che leggerete, vedrete delinearsi con netta evidenza il suo carattere di persona intensamente interessata al colore, ad una natura dove trovava piacere identificarsi, molto sensibile e travagliato interiormente. E’ un modo per conoscerlo più da vicino che ce lo rende a volte, più uomo che artista e che rispecchia la sua visione della vita. Un percorso che vorrei fare con voi per scoprire ancor più questo pittore che ho sempre trovato nel suo esprimersi, affascinante e talvolta misterioso. Le lettere che scrisse sono circa 750. Alcune sono anche molto lunghe, dalle sei alle otto pagine, e accuratamente dettagliate. Si può dire che con le sue lettere Van Gogh abbia tracciato un itinerario biografico e stilistico completo, descrivendoci inoltre la maggior parte delle sue opere e corredando le lettere con disegni e schizzi riproducenti i quadri di cui parlava. A partire dal luglio 1880 ha scritto quasi esclusivamente in francese. Di nessun altro artista possediamo una documentazione così dettagliata e importante. Le lettere sono state pubblicate nel 1914 ( 3 volumi ) a cura della signora Johanna Bonger in Van Gogh, vedova di Theo Van Gogh, che vi appose una prefazione di sessanta pagine, prima traccia biografica completa sul pittore. Un’ edizione successiva ( 1953 , 4 volumi ) raccolse altre lettere ancora, o diede la versione integrale di lettere già pubblicate solo in parte. Questa edizione venne curata da Vincent Willem Van Gogh, figlio di Theo e quindi nipote del pittore.
Vincent non ebbe una vita semplice e serena. Una natura fragile la sua, tormentata capace però di grande commozione e incline alla generosità pur manifestando talvolta sentimenti disperati e violenti. Visse un’agghiacciante solitudine dell’anima, da solo a lottare con i colori, ( nel film ”Brama di vivere” del 1956 interpretato da Kirk Douglas nei panni del pittore, regia di Vincent Minnelli, c’è una scena che è sintomatica: Douglas che mangia i tubetti di colore, il che è veramente successo come è riportato in una lettera dell’artista indirizzata a Theo ) guidato unicamente da quel suo istinto animale e visionario che lo condannava a cercare la Verità attraverso la propria arte. E proprio quest’ultima riuscì a dare un preciso indirizzo di percorso alla sua vita confusa e inquieta. Era comunque una di quelle buone persone incomprese, talvolta derise per la propria sensibilità, e di questo soffrì terribilmente. Cercò sempre l’amore, lo sentiva come esigenza interiore, ma aveva una maniera goffa nel relazionarsi tale da portarlo all’isolamento. Solo il fratello Theo riuscì ad entrare in contatto con lui e grazie a Theo e ancor più, a sua moglie ( che si occupò dopo la morte del pittore di farne conoscere l’opera pittorica e il suo valore ) possiamo oggi ammirare le sue opere. Chiaramente ciò che vi proporrò saranno lettere in ordine sparso. Leggetele con interesse per entrare in contatto con il suo modo di sentire. Ascoltiamo ora le sue parole scritte al fratello nella lettera N. 227
”Caro Theo,
Uno studio che ho eseguito nel bosco è di alcuni tronchi di betulla su di una distesa di terreno ricoperta da rami secchi, ed una figuretta di una ragazza vestita di bianco. C’era la gran difficoltà di mantenerlo chiaro e di far entrare spazio tra i tronchi posti a distanza diversa— e la posizione ed il volume relativo di quei tronchi varia con la prospettiva—per far sì che si potesse respirare e camminarci attorno e per far sentire la fragranza del bosco.
E’ stato con estremo piacere che ho eseguito quei due studi.
Questa settimana ho dipinto degli studi piuttosto grandi, nel bosco, che ho cercato di svolgere in maniera più completa e con maggiore vigore dei primi.
Dopo esser restato seduto a disegnare , ci fu un temporale violento che durò per almeno un’ora. Ero tanto ansioso di continuare che me ne restai lì, e mi riparai come meglio potevo dietro un grande albero. Quando infine terminò e i corvi ripresero a volare, non rimpiansi di aver aspettato, per via della meravigliosa tonalità profonda che la pioggia aveva impartito al terreno.”
Vi aspetto alla prossima.
Fanciulla tra gli alberi —L’Aia, agosto 1882
Immagine da Wikipendia
Fonte ” La vita e l’arte di Van Gogh” Mondadori
Ringrazio con tutto il mio cuore tutti gli amici che con il loro pensiero si sono fatti sentire per gli auguri nel giorno del mio compleanno. Siete tutti splendidi. Vi voglio bene. Isabella
” Avevo l’abitudine di correre
dietro la guerra come un alcolizzato
corre dietro una lattina di birra”. Don McCullin
Il suo viso è grave, come marcato dall’impronta di un’esperienza insolita, fuori dal comune. A 78 anni, Don McCullin ha passato una buona parte della sua vita a renderci partecipi attraverso le sue foto, dei conflitti maggiori della seconda metà del XX secolo. La sua dignità ispira rispetto, la sua forza magnetica ammirazione da mettere in soggezione il suo interlocutore. Eppure possiede un tale charme, una certa flemma inglese, una cortesia e gentilezza che creano da subito un caloroso contatto . La sua vita è degna di un romanzo d’avventura. Da Cipro al Vietnam passando per Cuba e la Cambogia, senza dimenticare il Salvador l’Africa o l’Irlanda: un pioniere del fotogiornalismo. Egli va cercando, mettendo a rischio la propria vita, l’informazione là dove si trova: sul terreno. Le sue foto hanno permesso d’essere informati anche a distanza di migliaia di chilometri su ciò che avveniva in quei luoghi. Immagini sconvolgenti che colpiscono per la veridicità l’opinione pubblica rivelando allo stesso tempo l’assurdità e violenza della guerra in Vietnam. La sua carriera non si deve altro che alla sorte. Ad un gesto insignificante, che oggi suona come un atto del destino. Di ritorno nel suo quartiere natale di Finsbury Park, uno dei quartieri più poveri di Londra, e dopo aver terminato il suo servizio militare nella Royal Air Force, Don McCullin rivende il suo apparecchio fotografico acquistato in Kenya, dove aveva lavorato come laboratorista in una camera oscura. Sua madre lo recupera subito per lo stesso prezzo. 5 sterline: una magra somma alla quale in conclusione è legata tutta la carriera di Don McCullin, dal momento che sarà proprio con quell’apparecchio che fotograferà i Guvnors, una gang del suo quartiere implicata nella morte di un ufficiale di polizia. Non ha che 23 anni, nel 1958, quando la sua foto è pubblicata sull’Observer, marcando così l’inizio della sua carriera. Dai quartieri miserabili di Londra viene così catapultato nel mondo esaltante del giornalismo. Dislessico, il giovane McCullin, che a 14 anni, ha lasciato la scuola dopo la morte del padre per lavorare in un vagone- ristorante, osserva e si integra rapidamente in questo nuovo ambiente sociale dove frequenta gente colta e istruita. Parte per Berlino nel 1961, poi per Cipro nel 1963 per testimoniare la guerra civile. Attraverso il suo comportamento sul terreno, come per la qualità delle sue foto McCullin si fa una nuova volta notare. Il suo innato sapersi comportare, il suo fiuto, il suo istinto: egli sa quando partire, quando restare , come aspettare. Il suo coinvolgimento, il suo talento, la sua capacità ad uscire dalle situazioni più inestricabili, e soprattutto il suo occhio capace di cogliere i dettagli più importanti, dando alle sue foto un’impronta del tutto particolare, farà di lui un fotografo al di sopra di tanti altri. Nei reportage McCullin non conta su nessuno, e rifiuta d’accompagnare le truppe presenti sulle zone di guerra. ” I canali ufficiali vi allontanano dalla verità. Essi vogliono giustamente farvi fotografare ciò che fa loro comodo.(…) In realtà non serve a niente rifare il mondo dentro la propria testa. Sul terreno, bisogna avere i nervi abbastanza saldi, per attendere. E’ una questione di disciplina.” E questo rigore, questa disciplina si ritrova in tutto il suo lavoro. Le sue foto non sono mai una messa in scena. Mai ritoccate, mai inquadrate di nuovo, tranne una volta, in Vietnam, dove dispose accanto alle spoglie di un soldato i suoi effetti personali per farne come il suo testamento. Dal 1966 al 1984 lavorò con il Sunday Times Magazine. Ed è con quest’ultima testata che realizzerà la maggior parte dei suoi servizi fotografici sul Biafra, Bangladesh, la guerra civile libanese o ancora l’invasione russa in Afghanistan. I suoi rimpianti? Non aver avuto l’autorizzazione dal governo britannico per poter lavorare a servizi fotografici sulla guerra delle Falkland e non aver potuto andare in Etiopia nel 1984 durante la grande carestia. Lucido ed integro durante gli anni più importanti della sua carriera, oggi ha una visione differente sulla sua professione. ”Oggi il mondo della fotografia è stato messo in discussione dal digitale. Ci sono sempre dei fotografi mentre il futuro della stampa non è stato mai così incerto. E tutti i fotografi pensano che per essere riconosciuti al meglio, debbano andare in zone di guerra.”Così dice McCullin. A scapito di altri soggetti? ”La povertà, la disoccupazione, sono guerre sociali, che si svolgono attorno a noi, perchè non cominciare da lì?” Ma egli riconosce che la guerra procura una scossa tale di adrenalina che può rapidamente rendere drogati . In Cambogia la sua macchina fotografica ferma di colpo una pallottola d’ AK- 47; in Salvador, il fotografo cade da un tetto, si rompe un braccio, l’anca e qualche costola; in Uganda è fatto prigioniero dagli sgherri di Amin Dada e picchiato e buttato in prigione. McCullin non ha mai cessato di amare la fotografia anche se per essa ha rischiato più volte la vita. Senza di lei si definisce ” un’anima persa”. Dopo parecchi anni, Don McCullin ha cessato di occuparsi di conflitti per dedicarsi invece ad un altro stile fotografico, riprendendo immagini di paesaggio e immortalando la sua terra, l’Inghilterra, soprattutto il Somerset. E se recentemente si è recato qualche giorno in Siria è stato per testimoniare, una volta di più, gli orrori che vi si attuano . McCullin si dice comunque infastidito dal fatto di essere riuscito nella vita grazie alla miseria umana. ” Talvolta mi sentivo come un avvoltoio. A forza di fotografare tragedie e corrervi dietro, si finisce per farne parte. Ho distrutto il mio corpo con questo mestiere, e anche il mio spirito. Ma è il prezzo che si deve pagare andando in zone così pericolose.” Fin qui l’articolo. Ed ecco cosa dice del suo fotografare paesaggi un suo amico, Robert Pledge, antropologo, studioso di lingue e culture africane: ”Questi paesaggi, sono un autoritratto, sono il mondo interiore di Don, la quiete dopo la tempesta. E’ Shakespeare . E lui è un personaggio shakespeariano, è Re Lear”.
Quando ho letto il post dell’amica Fulvialuna ( http://tuttolandia.wordpress.com/ ) sul libro di Calabresi che parlava di vari fotografi, tra i quali Don McCullin, mi sono ricordata di quest’articolo che avevo letto in Francia l’estate scorsa e ho pensato di riproporlo qui per tutti voi. Se volete vedere qualche sua foto basta andare in internet cliccando : foto McCullin
fonte: da un articolo di Vincent Jolly Le Figaro – Magazine settembre 2013
Da me tradotto al meglio delle mie possibilità