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Ogni  volta  che  nei  secoli  passati  i  pellegrini  cominciavano  i   loro  lunghissimi  viaggi   per   raggiungere   i  sacri  luoghi,  dovevano  mettere  in  conto  la  possibilità di  contrarre  malattie  oltre  ovviamente  l’imbattersi  in  pericoli  talvolta  imprevedibili.  Spesso  c’era  la  possibilità  che  non  si  potessero  raggiungere  le  tanto  mete  agognate (  Roma,  Santiago  o  la  lontanissima  Gerusalemme)  per  coloro  che  sfortunati  dovevano  soccombere  prima.  Le  ”Cronache ”  medievali  riportano  che  nel  solo  ospedale  di  Firenze,  durante  il  periodo  del  Giubileo,  venivano  registrati  fino  a  venti  morti   al  giorno  tra  i  ”forestieri” che  vi  passavano  diretti  a  Roma.  In  quel  periodo  animali  feroci  e  briganti  transitavano  ancor  più  forse  dei  pellegrini  e  questi  ultimi,  patendo  la  fame  e  la  sete  per  mancanza  d’acqua  potabile,  erano  destinati  a  soccombere.  In  più  certamente  la  paura  dell’ignoto  e  l’incertezza  di  non  potere  ritornare  rendeva  il  viaggio  ancora  più  difficile.  Tanti  facevano  testamento  prima  di  partire  per  lasciare  ai  propri  cari  i  loro  averi  se  pur  pochi.  La  cosa  peggiore  però  che  poteva  capitare  ai  pellegrini,  era  all’improvviso  ammalarsi.  La  malattia  era  imprevedibile  quanto  minacciosa  e  implacabile.  Si  poteva  avere  di  fronte  un  nemico  terribile,  in  grado  di  provocare  ferite,  menomazioni,  infezioni  tali  da  portare  alla  morte.  Ecco  quindi  che  proprio  per   offrire  conforto  al  pellegrino,  lungo  i  percorsi  più  battuti,  si  potevano  incontrare  ospizi  che  avevano  la  funzione  di  alloggiare  gli  ammalati  dando  loro  oltre  che  un  aiuto  anche  informazioni  mediche  che  rendessero  sicuro  il  viaggio.  Secondo  alcune  fonti  antiche,  pare  che  in  alcuni  luoghi  ci  fosse  un  buon  livello  di  professionalità.  Ad  Altopascio  per  esempio,  venivano  prescritte  diete  appropriate  sia  per  gli  ammalati  che  per  i  sani  e  consigliate  regole  alimentari  diversificate  per   l’estate  e  per  l’inverno.  Si  facevano  turni  di  guardia  agli  infermi  e  si  somministravano  medicinali  e  pozioni  per  l’insonnia,  febbre  o  malattie  infettive.  Spesso  i  pellegrini  avevano  per  i  lunghi  percorsi  fatti,  piaghe  ai  piedi,  lesioni  più  o  meno  gravi ,  ulcerazioni,  e  venivano  allora  curati  con  erbe  di  vario  tipo.  Una  delle  ricette  più  efficaci  la  possiamo  trovare  nel  prezioso  codice  membranaceo   ” De  sanitatis  custodia”  redatto  dal  medico  Jacopo  Piemontese.  Per  chi  aveva  i  piedi  congelati  prescriveva  un  unguento  a  base  di  ” trementina,  resina  bianca,  olio  e  mastice” che  doveva  essere  versato  ancora  caldo  su  un  panno  molle  e  applicato  su  gambe  e  piedi.  Il  Grataroli, un  affermato  medico  del  XVI  secolo,  aveva  redatto  un  testo  pieno  di  utili  consigli  e  ricette  per  curare  numerose  malattie  comuni:  il  suo  De  Regimine  viatoribus  et  peregrinatoribus,  dato  alle  stampe  nel  1561,  va  considerato  la  prima  pubblicazione  a  cui  fare  riferimento  per  l’igiene  personale  e  per  una  corretta  alimentazione  da  tenere  durante  il  viaggio,  sia  per  prevenire  che  per  affrontare  situazioni  particolari  come  sopportare  ad  esempio  gli  stimoli  della  fame  o  della  sete,  o come  far  fronte  per  superare  intossicazioni  dovute  ad  avvelenamenti  di  cibo  o  come  combattere  l’insorgenza  della  febbre.  Il  Grataroli  consigliava  per  i  piedi  ulcerati  bagni  con  cenere  e  camomilla  o  applicazioni  con  sterco  di  gallina  e  per  debellare  le  ragadi  unguenti  a  base  di  cera  vergine,miele e olio.  Per  la  cura  del  sonno,  che  per  il  pellegrino  doveva  essere  profondo  e  ristoratore,  il  medico  offriva  efficaci  consigli  sul  modo  di  addormentarsi  e  talvolta  per  coloro  che  non  riuscivano  lo  stesso  a  prender  sonno,  un  buon  bicchiere  di  vino  rosso  prima  di  coricarsi. Per  debellare i  pidocchi  di  cui  i  giacigli  negli  ostelli  erano  pieni,  consigliava  decotti  di  papavero  o  sciroppi  di  ninfee.  Per  i  più  fortunati  che  facevano  il  viaggio  a  cavallo,  altri  tipi  di  fastidi  erano  comunque  in  agguato  dovuti  ad  esempio  alle  continue  sollecitazioni  della  sella  su  di  una  parte  piuttosto  ”delicata”  del  cavaliere.  E  allora  qui  era  d’uopo  premunirsi  con  pomate  che  all’occorrenza  venivano  spalmate  sulle  parti  doloranti  da  volenterosi  locandieri.  Sempre  il  Grataroli  consigliava,  d’inverno,  attraversando  valichi  alpini,  di  ungere  preventivamente  le  palpebre  con  particolari  misture  per  proteggere  gli  occhi  dall’abbagliante  biancore  della  neve  o  proteggere   gli  stessi  con  lenti  da  legarsi  attorno  alla  testa.  Fondamentale  durante  il  lungo  cammino per  evitare  svenimenti  era  portare  con  sè  un  pò  di  menta  romana   il  pulegium   che  offriva   le  stesse  prestazioni  del  cosiddetto  ”pomo  d’ambra”,  che  sprigionava  un  aroma  utilissimo  appunto  nel  caso  di  svenimento (  un  pò  come  l’aceto  che  usiamo  oggi  per  la  stessa  cosa).  Per  proteggere  il  viso  dalle  bruciature  del  sole  e  del  vento,  una  crema  semplice  ed  economica  si  otteneva  macerando  dei  lupini  nell’acqua  aggiungendo  l’omphacium  oleum(  probabilmente  un  estratto  ottenuto  da  olive  oppure  da  uve  acerbe)  o  la  più  costosa  medulla  cervina ( midollo   di  cervo).  Per  le  labbra  si  poteva  applicare   uno  strato  di  grasso  d’oca   o  di  midollo  di  bue  ottimi  come  crema protettiva.  Tra  i  rimedi   più  antichi  utilizzati  dai  pellegrini  più  ferventi,  che  non  credevano  molto  alla  scienza  medica,  c’era  l’invocare  prima  di  ogni  partenza  i  ”dottori  celesti”  al  fine  di  scongiurare  i  pericoli  e  i  malanni  più  gravi :  la  malattia  era  vista  infatti  come  personificazione  della  tentazione  demoniaca  e  del  peccato  che  s’impadroniva  del  corpo  mortale  del  pellegrino  e  necessitava  quindi  della  protezione  di  efficaci  mediatori  divini.  Agli  angeli  custodi  e  agli  arcangeli  Michele,  Gabriele,  e  Raffaele  si  affiancavano  i  santi  protettori  del  cammino  –  i  fratelli  medici  e  martiri  Cosma  e  Damiano, San  Cristoforo,  San  Mauro,  San  Rocco,  San  Giuliano   –  ai  quali  erano  dedicati  numerosissimi   santuari,  chiese  e  cappelle  lungo  i  percorsi  battuti  dai  pellegrini.   San  Rocco  era  il  più  invocato  a  partire   dal  XIV  secolo,   e  la  sua  infallibilità   taumaturgica  sembra  comprovata  dalla  miracolosa  guarigione  dalla  peste  di  un  cardinale  e  di  un  papa.  Le  guarigioni  potevano  essere  ottenute  recitando  una  preghiera  e  segnando  ripetutamente  sul  corpo  del  malato  il  simbolo  della  croce.  Qualora  tutto  ciò  non  bastasse,  un  rimedio  efficace  era  costituito  dal  contatto  con  le  sante  reliquie.   Queste,  incontrate  e  venerate  nelle  varie  tappe  del  cammino,  costituivano  una  ”vera  e  propria  terapia”,  nell’insorgenza  di  malattie.  A  Roma  si  potevano  trovare  grani  e  carboni  d’incenso  che  dopo  essere  stati  a  contatto  con  le  spoglie  di  San  Pietro  e  San  Paolo  acquistavano  virtù  miracolose, oppure  gli  ”Agnus  Dei”,  medaglioni  di   cera   mescolata  alle  ossa  dei  martiri,  che  venivano  distribuiti  gratuitamente  ai  fedeli  al  fine  di  aiutare  ad  esempio  il  parto,  scacciare  fulmini,  proteggere  dal  fuoco  o  dalla  morte  improvvisa.  Se  poi  nessuno  di  tali  rimedi  si  dimostrava  efficace,  il  pellegrino  che  moriva  prima  di  raggiungere  Roma,  aveva  ugualmente  il  conforto  di  ottenere  il  perdono  dei  peccati  promesso  dal  Giubileo.

Fonte :  articolo  di  Federica  Annibaldi  da ” Luoghi  dell’infinito”  mensile  di  Avvenire


<< Il mondo mediterraneo fino all’affermazione della supremazia romana, era molto eterogeneo. Ciascun popolo si differenziava anche e soprattutto  per le abitudini alimentari e conviviali. E quando Roma si rafforzò in potenza , essa diventò  un crogiolo di razze dove uomini diversi, provenienti da tutti gli angoli del mondo allora conosciuto, s’incontravano mescolando gusti e abitudini a tavola. Inoltre qui vivevano, tutti coloro che portati come schiavi da lontani paesi ,erano divenuti pedagoghi ,coppieri, cuochi riversando nella vita di tutti i giorni,le loro abitudini comprese quelle alimentari. A Roma s’incontravano così tutte le culture, le mode, e le cucine del tempo ed essa assorbì tutti questi influssi, ma ne fece anche una cernita. Perciò, alla fine, fu soltanto lei, con i suoi gusti e le sue scelte, a dire l’ultima parola; e la sua influenza impose il suo modo di vita nel resto dell’impero. Le notizie che si hanno sull’alimentazione e i banchetti romani sono molte e ci vengono soprattutto da scrittori, poeti , e storici latini a partire dagli autori dei Trattati di Agricoltura, il più antico tra i quali , Catone il Censore, scrisse tra il III e II secolo a. C. e ci lasciò ottime ricette di cucina, dove ingredienti e dosi, metodi di cottura possono venire utilizzati anche oggi. Più tardi i poeti iniziarono a raccontare e descrivere momenti conviviali tra amici, fastosi banchetti offerti dagli imperatori. Il raffinato Petronio dedica una parte del suo Satyricon al banchetto di Trimalcione che viene rappresentato mentre scimmiotta l’imperatore e la sua corte. Giovenale ci racconta di un gigantesco rombo regalato a Domiziano da un pescatore, che non trovando una pentola adatta a contenerlo , provocò una sessione straordinaria al Senato che decise di far fare un tegame su misura per cucinarlo. Plinio il Vecchio ci racconta di pane e frutta mentre Varrone e Columella ci descrivono i vari impianti zootecnici, tra i quali , molto interessanti, quelli dei piscinarii, così chiamati i proprietari di allevamenti di pesci. Anche gli storici ci raccontano cose simpatiche in materia. Da Sparziano apprendiamo qual’era il piatto preferito di Adriano: il tetrafarmaco. Una pietanza che consisteva in un involucro di pasta dolce nel quale venivano rinchiuse carni di fagiano, lepre e cinghiale. Plinio il Vecchio ci racconta di come Tiberio adorasse i cetrioli, tanto che i suoi giardinieri avevano inventato delle serre, coperte da vetri e montate su ruote, per sfruttare al meglio il sole e farglieli avere così tutto l’anno. Preferiva a cibi costosi radici e verdure ed era ghiotto anche di pastinache, un tipo di carote che faceva venire appositamente dalla Germania dove crescevano le migliori. Apicio era un famoso e ricchissimo gastronomo che si rovinò per la sua tavola. Egli era capace di armare una nave e solcare le acque del Mediterraneo per cercare di procurarsi gamberi di dimensioni fuori del normale. Così fece quando seppe che quelli libici lo erano davvero. Ma ahimè l’informazione si rivelò infondata e tornò quindi amaramente indietro. Come conseguenza di tali follie il suo patrimonio, che per altri sarebbe stato principesco,si ridusse per lui ad una cifra tale, inadeguata ( sempre secondo lui ) al tenore di vita al quale era abituato. A questo punto preferì offrire una cena memorabile, mise del veleno nell’ultima coppa di vino e terminò la sua vita su di un letto tricliniare, come era a lui più congeniale. Questo, secondo Marziale, fu il suo più notevole atto di golosità. Di Apicio si parlò molto, tanto da entrare nella leggenda. Esiste un libro di ricette, scritto da altri , all’interno del quale ci potrebbero essere alcune sue ricette. Il De re coquinaria ( ”Sulla cucina” ) che scritto in latino tardo, nel IV  secolo d.C contiene molte ricette e sembrerebbero riunite scegliendole da vari testi. Sicuramente alcune ricette sono tratte da testi di cucina greci e latini andati perduti ed ecco quindi l’importanza di tale testo , l’unico pervenutoci ed al quale fare riferimento per la cucina antica.>> Ho riletto questo articolo, che giudico molto interessante, prendendo dalla mia libreria  la rivista ” ARCHEO-attualità del passato” sfogliandola come faccio spesso, anche con altri libri e riviste che ho in notevole quantità, ogni volta che mi diletto nello ”spolvero quotidiano”. Spero abbia interessato anche voi e vi aspetto alla prossima dove parlerò di Pompei ed Ercolano.

fonte: <<Archeo- attualità del passato >>     articolo di Eugenia Salza Prina Ricotti      dicembre 1988