Archivi tag: polvere

Ecco,

il  toro

entra  nell’arena.

Guardingo,

furtivo,

si  aggira

fiutando  nell’aria

qualcosa  di  strano.

Non  sa

di  preciso

cosa  sia

ma  è  nervoso,

infastidito.

Sbuffa

con  le  grosse  narici

aspettando…

Improvvisamente

i  cancelli

si  aprono

e  il  torero

fa  il  suo  ingresso

nell’arena.

Ora  sono  soli,

lui  e  l’uomo

in  quell’ampio  spazio

polveroso.

L’uno 

davanti

all’altro.

Il  toro

avverte

lo  sconosciuto,

tutto  bardato

in  un  costume

scintillante,

quasi   fosse

una   festa,

come  nemico,

e  lo  guarda   ormai

con  diffidenza.

Gli   gira  intorno,

lo  scruta,

lo  annusa.

Ora,

sa

cosa  lo  attende

e  come  deve  difendersi.

Non  ci  sono

alternative.

Ora

sa

che

o  lui

o  il  torero

non avrà  scampo,

e

rimarrà  lì,

steso

immobile

nella  polvere.

 

Isabella  Scotti                  dalla mia raccolta ”All’improvviso”

Per l’amico Osvaldo   http://profumodidonna.wordpress.com//

 

 

 


Com’è  dolce

il  fluire  del  tempo.

Ci  accorgiamo

piano

di  lui

che  viene  avanti

deciso,

puntuale,

preciso.

Accarezza

i  nostri  capelli

facendo  cadere

su  di  essi

come  per  magia,

un’improvvisa

polvere

 d’argento

e  soffiando

sulla  nostra  pelle

qualcosa

che  stranamente

la  raggrinzisce.

Silenziosamente,

ma  inesorabilmente,

si  prende

a  poco  a  poco

la  nostra  vita,

ma  lo  fa

con  tatto,

con  garbo,

perchè

il  fluire  del  tempo

è  nella  natura

delle  cose,

è  uno  scorrere

lento,

ma  continuo,

come  l’acqua

di  un  fiume

che  scivola  piano,

senza  far  rumore.

Isabella  Scotti

Dalla mia raccolta  ”Riflessioni”

 

 

COL  TEMPO

Col  tempo  sai

col  tempo  tutto  se  ne  va

non  ricordi  più  il  viso

non  ricordi  la  voce

quando  il  cuore  ormai  tace

a  che  serve  cercare  ti  lasci  andare

e  forse  è  meglio  così

 

Col  tempo  sai

col  tempo  tutto  se  ne  va

l’altro  che  adoravi  che  cercavi  nel  buio

l’altro  che  indovinavi  in  un  batter  di  ciglia

tra  le  frasi  e  le  righe  e  il  fondotinta

di  promesse  agghindate  per  uscire  a  ballare

col  tempo  sai  tutto  scompare

 

Col  tempo  sai

col  tempo  tutto  se  ne  va

oggni  cosa  appassisce  io  mi  scopro  a  frugare

in  vetrine  di  morte  quando  il  sabato  sera

la  tenerezza  rimane  senza  compagnia

 

Col  tempo  sai

col  tempo  tutto  se  ne  va

l’altro  a  cui  tu  credevi  anche  un  colpo  di  tosse

l’altro  che  coprivi  di  gioielli  e  di  vento

per  cui  avresti  impegnato  anche  l’anima  al  monte

a  cui  ti  trascinavi  alla  pari  di  un  cane.

 

Col  tempo  sai

col  tempo  tutto  se  ne  va

non  ricordi  più  il  fuoco

non  ricordi  più  le  voci  della  gente  di  poco

e  il  loro  sussurrare

non  ritardare  copriti  col  freddo  che  fa

 

Col  tempo  sai

col  tempo  tutto  se  ne  va

e  ti  senti  il  biancore  di  un  cavallo  sfiancato

in  un  letto  straniero  ti  senti  gelato

solitario  ma  in  fondo  in  pace  col  mondo

e  ti  senti  tradito  dagli  anni  perduti

Allora  tu,  col  tempo,  sai…

non  ami  più.

Leo  Ferrè

 

 

 

 

 

 

 


Di  nuovo

un  tuonar  di  bombe.

Qui  nel  rifugio

ne  avvertiamo

il  sibilo

e  trasaliamo

nel  momento  in  cui

avvertiamo

il  loro  contatto

al  suolo.

Immaginiamo

  fuori,

la  polvere,

le  case  distrutte,

i  morti

disseminati,

tutti  coloro

che  non  hanno

raggiunto  in  tempo

questo  riparo

nascosto.

La  paura

è  nei  nostri  volti,

e  l’angoscia

per  il  futuro

che  non  sappiamo  vedere

è  di  tutti.

Cosa  sarà  di  noi?

Dei  nostri  sogni  rubati,

delle  nostre  speranze,

dei  nostri  amori

appena  nati?

Tutto  ci  è  strappato  e  negato.

Potrà  il  nostro  cuore

in  frantumi

essere 

come  un  puzzle  ricostruito?

Ascolta  amico…

ora  tacciono,

possiamo  uscire.

Avremo  il  coraggio

di  guardarci  intorno?

Dammi  la  mano,

fammi  forza.

Io  brancolo  nel  buio.

 

Isabella Scotti

 

Poesia  scritta   dopo  essere  stata  al  cinema  e  aver  visto  il  film  ”Storia  di  una  ladra  di  libri”. Non  è  certo  il  primo  film  visto   sulla  guerra  con  scene girate all’interno  di  un  rifugio. Qui  però,   non  so,  vedendo  alcune  cose,   mi  sono  forse  sentita  molto  coinvolta,   mah,  tant’è  che  ho  scritto  questo  pezzo  e  lo  condivido  con  voi.

 

 


Nei   giudizi  di   Vittorio   Alfieri   e  di  Charles   Dickens

    due   volti   contraddittori  della  capitale  inglese

     nel  primo  secolo  di  governo   hannoveriano.

 

”Quanto  mi  era  spiaciuto  Parigi  al  primo  aspetto,  tanto  mi  piacque  e  subito  l’Inghilterra,  e  Londra  massimamente.  Le  strade,  le  osterie,  i  cavalli,  le  donne,  il  ben  essere  universale,  la  vita  e  l’attività  di  quell’isola,  la  pulizia  e  comodo  delle  case  ancorchè  piccolissime,  il  non  vi  trovare  pezzenti,  un  moto  perenne  di  danaro  e  d’industria  sparso  egualmente  nelle  province  che  nella  capitale;  tutte  queste  doti  vere  ed  uniche  di  quel  fortunato  e  libero  paese,  mi  rapirono  l’animo  a  bella  prima,  e  in  due  altri  viaggi,  oltre  quello,  ch’io  vi  ho  fatti  finora,  non  ho  variato  mai  più  di  parere,  troppa  essendo  la  differenza  tra  l’Inghilterra  e  tutto  il  rimanente  dell’Europa  in  queste  tante  diramazioni  della  pubblica  felicità,  provenienti  dal  miglior  governo.  Onde,  benchè  io  allora  non  ne  studiassi  profondamente  la  Costituzione,  madre  di  tanta  prosperità,  ne  seppi  però  abbastanza  osservare  e  valutare  gli  effetti  divini.  In  Londra  essendo  molto  maggiore  la  facilità  per  i  forestieri  di  essere  introdotti  nelle  case,  di  quel  che  non  sia  in  Parigi,  io,  che  a  quella  difficoltà  parigina  non  avea  mai  voluto  piegarmi  per  ammollirla,  perchè  non  mi  curo  di  vincere  le  difficoltà  da  cui  non  me  ne  ridonda  niun  bene,  mi  lasciai  allora  per  qualche  mese  strascicare  da  quella  facilità  nel  vortice  del  gran  mondo.  ( …)  Nell’aprile  poi  si  fece  una  scorsa  nelle  più  belle  province  d’Inghilterra.  Si  andò  a  Portsmouth  e  Salsbury,  a  Bath,  Bristol,  e  si  tornò  per  Oxford  a  Londra.  Il  paese  mi  piacque  molto,  e  l’armonia  delle  cose  diverse,  tutte  concordanti  in  quell’isola  al  massimo  ben  essere  di  tutti,  m’incantò  sempre  più  fortemente;  e  fin  d’allora  mi  nascea  il  desiderio  di  potervi  stare  per  sempre  a  dimora  non  che  gl’individui  me ne  piacessero  gran  fatto  (  benchè  assai  più  dei  Francesi,  perchè  più  buoni  e  alla  buona)  ma  il  local  del  paese,  i  semplici  costumi,  le  belle  e  modeste  donne  e  donzelle,e  sopra  tutto  l’equitativo  governo  e  la  vera  libertà  che  n’è  figlia;  tutto  questo  me  ne  faceva  affatto  scordare  la  spiacevolezza  del  clima,  la  malinconia  che  sempre  vi  ti  accerchia  e  la  rovinosa  carezza  del  vivere.”

Dall”Autobiografia”  di  Vittorio  Alfieri

 

”Presso  quella  parte  del  Tamigi  su  cui  s’affaccia  la  chiesa  di  Rotherhite,  dove  le  case  sulle  rive  son  le  più  sudice  e  i  bastimenti  sul  fiume  i  più  neri  per  via  della  polvere  dei  battelli  carbonieri  e  del  fumo  delle  case  fitte  e  basse,  si  trova  il  più  lercio,  il  più  bizzarro,  il  più  straordinario  dei  molti  luoghi  che  si  celano  in  Londra,  assolutamente  ignoti,  anche  di  nome,  alla  gran  massa  dei  suoi  abitanti.  Per  raggiungerlo,  il  visitatore  deve  addentrarsi  in  un  dedalo  di  viuzze  fitte,  anguste  e  fangose,  popolate  dalla  più  povera  e  rozza  plebe  rivierasca  e  consacrate  a  quel  genere  di  commerci  a  cui  si  può  supporre  che  esse  dian  luogo.  Nelle  botteghe  son  ammucchiati  gli  oggetti  più  a  buon  mercato  e  scadenti;  i  capi  di  vestiario  più  rozzi  e  comuni  penzolano  dal  cornicione  delle  finestre.  Facendo  a  gomitate  con  lavoratori  disoccupati  d’infima  classe,  con  caricatori  di  zavorra,  scaricatori  di  carbone,  donnacce,  bimbi  cenciosi,  e  la  marmaglia  del  fiume,  il  visitatore  s’apre  il  passo  a  fatica,  assalito  dagli  spettacoli  più  ripugnanti  e  dal  grave  lezzo  degli  angusti  chiassuoli  che  si  diramano  a  destra  e  a  sinistra,  e  assordato  dallo  strepito  di  pesanti  carri  che  trasportano  grandi  mucchi  di  mercanzie  dagl’innumerevoli  magazzini  che  sorgono  a  ogni  cantone.  Arrivando  alla  fine  in  strade  più  remote  e  meno  frequentate  di  quelle  per  cui  è  passato,  egli  cammina  sotto  case  tentennanti,  che  strapiombano  sul  marciapiede,  muri  diroccati  che  paiono  vacillare  mentre  passa,  camini  metà  rovinati  metà  lì  per  lì  per  crollare,  finestre  difese  da  sbarre  di  ferro  rugginose  che  il  tempo  e  il  sudiciume  han  quasi  divorato,  insomma  tutti  i  segni  che  immaginar  si  possano  dall’abbandono  e  dalla  desolazione.  In  una  contrada  di  questa  fatta,  oltre  Dockhead  nel  sobborgo  di  Southwark,  si  trova  l’isola  di  Giacobbe,  cinta  da  un  fossato  limaccioso,  profondo  sei  o  sette  piedi  e  largo  quindici  o  venti  con  l’alta  marea,  una  volta  chiamato  Mill Pond,  ma  noto  nei  giorni  nostri  col  nome  di  Folly  Ditch.  E’  una  piccola  insenatura  del  Tamigi  che  può  sempre  venire  riempita  quando  la  marea  è  alta  aprendo  le  cateratte  di  Lead  Mills,  da  cui  derivava  l’antico  nome.  In  tali  occasioni  un  visitatore ,  guardando  da  uno  dei  ponti  di  legno  che  l’attraversano  a  Mill  Lane,   vedrà  gli  abitanti  delle  case  d’ambo  i  lati  calar  giù  dalle  porte  e  dalle  finestre  di  dietro  secchi,  mastelli,  utensili  domestici  d’ogni  specie  per  attingere  acqua,  e  quando  il  suo  occhio  si  volge  da  queste  operazioni  alle  case  stesse,  lo  spettacolo  che  gli  si  para  davanti  provocherà  il  suo  massimo  stupore.  Bizzarre  gallerie  di  legno  comuni  alla  parte  posteriore  d’una  mezza  dozzina  di  case,  con  buchi  da  cui  guardare  la  melma  sottostante;  finestre  rotte  e  rabberciate,  da  cui  si  protendono  pertiche  per  lo  sciorinamento  d’una  biancheria  che  non  c’è  mai ;  stanze  così  minuscole,  così  soffocanti,  che  l’aria  parrebbe  troppo  infetta  persino  per  il  sudiciume  e  lo  squallore  che  vi  albergano;  casotti  di  legno  che  si  sporgono  al  disopra  del  fango  e  minacciano  di  precipitarvi,  com’è  accaduto  ad  alcuni ;  muri  incrostati  di  sporcizia  e  fondamenta  fatiscenti;  ogni  repellente  caratteristica  della  miseria,  ogni  nauseante  traccia  di  sozzura,  di  putrefazione e  d’immondizia;  tutto  questo  adorna  le  sponde  di  Folly  Ditch.”

 

dall”Oliver  Twist”  di   Charles  Dickens,  citato  e  tradotto  da  M.  Praz,  ”La  crisi  del  dell’eroe  nel  romanzo  vittoriano”  Firenze  Sansoni,  1952 )

 

Brani  tratti  da  Le  grandi  famiglie  d’Europa  –  gli  Hannover  Windsor   Mondadori