Phis.org
Ulivo,
che sembri
piangere
per lo scempio
che di te
fa
l’ odiosa xylella,
non abbatterti,
non lasciare
che ti uccida
ogni giorno
di più.
Ribellati,
ulivo
vecchio di secoli.
Alza i tuoi rami
non lasciare
che diventino secchi,
non soccombere.
Regalaci
ancora
i tuoi frutti,
regalaci ombra,
come sempre
hai fatto.
Il tuo legno,
durissimo,
non può cedere,
non può diventare
cartapesta.
Voglio ancora
in terra
di Puglia,
in campagna,
ovunque tu sia,
vederti rigoglioso,
solare.
Vinci la tua battaglia,
lotta contro
la xylella fastidiosa.
Raddrizza
la tua chioma
fluente,
torna ad essere
la pianta che eri,
che sei sempre stata.
Torna a produrre
quell’ olio ambrato,
di cui tutti
andiamo fieri,
resta con noi,
non scomparire.
Come potremmo
vivere la Pasqua
senza il dono
di un tuo ramo,
simbolo della gioia,
d’ infinito amore ?
Isabella Scotti ottobre 2019
testo : copyright legge 22 aprile 1941 n° 633
Vederli così malati da vicino, vi assicuro è una tristezza.
Ora per voi la voce del grande Pablo Neruda
Ode all’ulivo
Accanto al frusciare
del cereale, tra le onde
del vento sull’avena,
l’ulivo
dal volume argentato,
stirpe austera,
nel suo ritorto
cuore terrestre:
le gracili
ulive
lucidate
dalle dita
che fecero
la colomba
e la chiocciola
marina:
verdi,
innumerevoli,
purissimi
picciuoli
della natura,
e lì
negli
assolati
uliveti,
dove
soltanto
cielo azzurro con cicale
e terra dura
esistono,
lì
il prodigio,
la capsula
perfetta
dell’uliva
che riempie
il fogliame con le sue costellazioni:
più tardi
i recipienti,
il miracolo,
l’olio.
Io amo
le patrie dell’olio,
gli uliveti
di Chacabuco in Cile,
al mattino
le piume di platino
forestali
contro la rugosa
cordigliera,
ad Anacapri, là su,
nella luce tirrena,
la disperazione degli ulivi,
e nella carta d’Europa,
la Spagna,
cesta nera di olive
spolverata di fiori d’arancio
come da una ventata marina.
Olio,
recondita e suprema
condizione della pentola,
piedistallo di pernici,
chiave celeste della maionese,
delicato e saporito
sulle lattughe
e soprannaturale nell’inferno
degli arcivescovili pesciprete.
Olio,
nella nostra voce, nel
nostro coro,
con
intima
mitezza possente
tu canti:
sei lingua
castigliana:
ci sono sillabe di olio,
ci sono parole
utili e profumate
come la tua fragrante materia.
Non soltanto il vino canta,
anche l’olio canta,
vive in noi con la sua luce matura
e tra i beni della terra
io seleziono,
olio,
la tua inesauribile pace,
la tua essenza verde,
il tuo ricolmo tesoro che discende
dalle sorgenti dell’ulivo.
Pablo Neruda
E il nostro Giovanni Pascoli
La canzone dell’ulivo
A’ piedi del vecchio maniero
che ingombrano l’edera e il rovo;
dove abita un bruno sparviero,
non altro, di vivo;
che strilla e si leva, ed a spire
poi torna, turbato nel covo,
chi sa? dall’andare e venire
d’un vecchio balivo:
a’ piedi dell’odio che, alfine,
solo è con le proprie rovine,
piantiamo l’ulivo!
II
l’ulivo che a gli uomini appresti
la bacca ch’è cibo e ch’è luce,
gremita, che alcuna ne resti
pel tordo sassello;
l’ulivo che ombreggi d’un glauco
pallore la rupe già truce,
dov’erri la pecora, e rauco
la chiami l’agnello;
l’ulivo che dia le vermene
pel figlio dell’uomo, che viene
sul mite asinello.
III
Portate il piccone; rimanga
l’aratro nell’ozio dell’aie.
Respinge il marrello e la vanga
lo sterile clivo.
Il clivo che ripido sale,
biancheggia di sassi e di ghiaie;
lo assordano l’ebbre cicale
col grido solivo.
Qui radichi e cresca! Non vuole,
per crescere, ch’aria, che sole,
che tempo, l’ulivo!
IV
Nei massi le barbe, e nel cielo
le piccole foglie d’argento!
Serbate a più gracile stelo
più soffici zolle!
Tra i massi s’avvinchia, e non cede,
se i massi non cedono, al vento.
Lì, soffre, ma cresce, né chiede
più ciò che non volle.
L’ulivo che soffre ma bea,
che ciò ch’è più duro, ciò crea
che scorre più molle.
V
Per sé, c’è chi semina i biondi
solleciti grani cui copra
la neve del verno e cui mondi
lo zefiro estivo.
Per sé, c’è chi pianta l’alloro
che presto l’ombreggi e che sopra
lui regni, al sussurro canoro
del labile rivo.
Non male. Noi mèsse pei figli,
noi, ombra pei figli de’ figli,
piantiamo l’ulivo!
VI
Voi, alberi sùbiti, date
pur ombra a chi pianta ed innesta;
voi, frutto; e le brevi fiammate
col rombo seguace!
Tu, placido e pallido ulivo,
non dare a noi nulla; ma resta!
ma cresci, sicuro e tardivo,
nel tempo che tace!
ma nutri il lumino soletto
che, dopo, ci brilli sul letto
dell’ultima pace!
L’olivo nella storia
L’intensificarsi dei traffici marittimi lungo le coste del Meridione d’Italia ad opera di fenici, greci e romani fu alla base dello sviluppo dell’olivicoltura in Puglia, la cui millenaria civiltà ha profonde radici nella presenza dell’olivo, un albero dotato di grande sobrietà e resistenza, che si adatta anche a terreni magri e superficiali.
La spremitura delle olive per ottenere olio era pratica conosciuta molti secoli prima della venuta di Cristo: le testimonianze di macine primitive sono conservate nei musei dell’isola di Creta, ad Haifa in Israele ed in Egitto. Sono innumerevoli le raffigurazioni plastiche e pittoriche che pongono al centro l’albero di olivo e le pratiche connesse con l’estrazione dell’olio e con la sua utilizzazione come medicina, come alimento, come cosmetico, come fornitore di energia e luce.
Nel museo nazionale di Taranto sono conservate tre anfore antiche ed un sarcofago di un atleta che aveva partecipato alle Panatanee di Atene ed era stato premiato con vasi riccamente ornati contenenti olio di oliva, ricavato dagli olivi piantati da Solone. Questi legiferò nel Seicento a.C. che per tutta l’Attica fosse vietato l’abbattimento degli alberi di olivo; solo in caso di estrema necessità sarebbe stato consentito l’abbattimento di non più di due piante. Ancora oggi è in vigore nel nostro paese una legge emanata nell’immediato dopoguerra per salvaguardare il patrimonio olivicolo da indiscriminati abbattimenti per farne legna da ardere.
Con l’affermarsi dell’Impero Romano, l’olio d’oliva assunse una funzione strategica nel campo del commercio e delle attività di scambio tra i diversi popoli e si intensificarono anche gli studi sulla buona coltivazione dell’olivo. Illustri uomini di cultura, quali Plinio il Vecchio, Catone, Columella, offrirono un notevole contributo di conoscenze sulla coltivazione degli olivi. Secondo Varrone, le olive debbono essere brucate (raccolte a mano) utilizzando, se è necessario, le scale; Plinio rileva i danni che si procurano alle piante dalla bacchiatura ed ordina ai raccoglitori di non scorticare l’albero. Columella descrive i diversi sistemi di estrazione dell’olio dalla drupe.
La presenza dell’olivo nel corso dell’alto Medioevo era piuttosto scarsa. Olivi isolati tra i coltivi o tra le distese pascolative interessavano soprattutto aree a diretta gestione signorile. L’olio comunque non era merce ricca e il suo commercio era condizionato anche dagli ingombranti recipienti con i quali veniva trasportato.
Con la bizantinizzazione dell’Italia meridionale si determinò un nuovo quadro colturale, ma nel frattempo vennero ripristinate anche le colture tradizionali, come l’olivo e la vite.
Ai secoli bui della caduta dell’Impero Romano seguì un periodo di rinnovamento anche per l’olivicoltura, nell’epoca dei Comuni e dei Monasteri. Il commercio dell’olio riprende ad opera dei navigatori veneziani. I porti di Brindisi, Gallipoli, Otranto e Taranto divennero meta di navi che trasportavano enormi quantità di olio; vi si installano fondachi oltre che veneziani, anche toscani, genovesi, russi, inglesi e tedeschi. Il commercio dell’olio d’oliva assunse una tale importanza che nel 1559, il viceré spagnolo Parafran De Rivera dispose la costruzione di una strada che collegasse Napoli alla Puglia, con biforcazioni per la Calabria e l’Abruzzo per consentire un trasporto più rapido dell’olio di oliva.
I primi decenni del XVII secolo segnano, anche in Terra d’Otranto, il momento culminante di quella fase di prosperità che aveva caratterizzato tutto il Cinquecento, ma registrano anche l’inizio di una lunga crisi, che diventerà poi irreversibile per tutto il Mezzogiorno. Il deterioramento delle condizioni climatiche e il lungo ciclo di basse temperature che investirono l’Europa dopo il 1600 furono le cause che determinarono la crisi dei raccolti e le eccezionali carestie. Per fortuna la crisi registrata nella metà del XVII secolo non fu di lunga durata e già verso gli anni Ottanta del Seicento si poteva registrare una forte ripresa dell’economia agricola, con l’oliveto che ancora una volta s’imponeva nel quadro generale del paesaggio agrario. Da allora la coltura dell’ulivo ha conosciuto solo periodi di espansione e le tecniche di coltivazione sono state caratterizzate da un costante progresso. Sono state le abili mani di generazioni di “potatori” e “innestatori” pugliesi a modellare la iniziale forma selvatica dell’olivo, per trasformare le zone boscose in coltivazioni ben curate e regolari, allo scopo di esaltare la funzione produttiva delle piante e nello stesso tempo contenere gli elevati costi di coltivazione e raccolta. Un lavoro duro di secoli, che s’è andato ad incorporare in un grande patrimonio naturale di incomparabile bellezza, caratteristico di ogni angolo di questa terra, tanto da suscitare sorpresa e ammirazione nel visitatore. La Puglia perderebbe ogni identità se venisse a mancare l’olivo dal suo splendido panorama.
https://www.olioterranostra.it/InfoOlio/OlivoNellaStoria.asp
E ora poteva forse mancare il grande Van Gogh e il suo famoso dipinto sugli ulivi ?
Gli ulivi ( Oliveto ) Van Gogh Giugno 1889
E ancora nel cinema : dalla serie televisiva Maria di Nazaret
Gesù, interpretato da Andreas Pietschmann , prega sul Monte degli ulivi
Buonanotte cari amici
Nuovo TAG amici. Che fare ? Nulla o dire qualcosa a riguardo? Troppo bello questo tag ideato da Carla ( https://ladimoradelpensiero.wordpress.com) e troppo bello essere stata taggata dal caro amico Piero ( fotogrammi e pentagrammi.wordpress.com ) per rimanere in silenzio.
Le regole sono sempre le stesse
1) ringraziare chi l’ha ideato : grazie Carla
2) ringraziare chi mi ha taggata : grazie Piero
3) nominare 10 blogger ( voi sapete che non lo farò )
4) mettere il logo
5 ) esporre il proprio ABC
Già nel titolo mi sono un pò sbilanciata.
Ora vi dirò qualcosa in più con un acrostico che racchiude il mio modo d’interpretare la felicità. Anche se debbo puntualizzare il fatto che difficilmente si può essere felici appieno, quanto più raggiungere uno stato sereno di appagamento. Questo logicamente è come la vedo io.
ARMONIA
Tutto ciò che messo insieme mi fa star bene. L’armonia del creato ad esempio procura in me una beatitudine straordinaria. Così come la danza, la musica classica o un’opera d’arte che racchiuda in sè quel mistero irraggiungibile che la rende tale ma che pur tuttavia raggiunge il cuore.
BERE LA VITA
Ecco, qui è il mio punto fermo. Giorno dopo giorno, fino in fondo, vivere apprezzando sia nel bene che nel male ogni pezzetto, come parte di un puzzle, della vita. Andare avanti, sempre , guardare al passato teneramente, sorridendogli ma proiettati verso il futuro, vivendo il presente con un sorriso. Quando il dolore arriva, perchè arriva, è bene non soffermarsi troppo su di esso perchè superarlo è l’unico modo di liberarsene. La vita va avanti imperterrita e noi dobbiamo accompagnarla con coraggio , dignità e forza. Vivere così è bere la vita fino all’ultimo goccio.
CUORE
Come fare a pensare e vivere senza usare il cuore. Amare con tutto il cuore. Fare tutto con il cuore. Ascoltarne i battiti, le vibrazioni, i palpiti. Il nostro cuore ci parla e ascoltarlo è l’unico modo per trovare quella serenità che andiamo tutti cercando.
Questo il mio ABC. Ed ora l’acrostico.
F elicità è bere la vita fino all’ultimo goccio
E realizzare i propri sogni
L iberi, senza costrizioni, è
I mmergersi nella natura
C on lo sguardo puro di un bambino. E’
I incontrare la persona giusta con la quale condividere
T utto
A mare incondizionatamente, sempre, perchè solo l’amore rende liberi
Isabella Scotti
Vi voglio bene. Un abbraccio a tutti . Isabella
Tu parli della tua età, dei tuoi fili di seta bianca.
Guarda le tue mani di petali d’oleandro, il tuo collo unica piega di grazia
Amo la cenere sulle tue ciglia sulle tue palpebre, i tuoi occhi d’oro opaco
I tuoi occhi di sole nella rugiada d’oro verde, sull’erba del mattino
I tuoi occhi a novembre come il mare all’aurora intorno al castello di Gorèe
Quanta forza nel fondo, che tesori di caravelle gettati al dio d’ebano!
Amo le tue giovani rughe e queste ombre che il tuo sorriso di settembre
Colora di rosa antico, questi fiori agli angoli dei tuoi occhi e delle tue labbra
I tuoi occhi il tuo sorriso, i balsami delle tue mani di velluto, il pelo del tuo corpo
Che da tempo mi incantarono nel giardino dell’Eden
Donna ambigua, tutta furore e dolcezza.
Ma nel cuore della fredda stagione
Quando le linee del tuo volto si presenteranno più pure
Le guance più cave, lo sguardo remoto, mia Donna,
Quando di solchi saranno striati, come i campi d’inverno la tua pelle,
Il collo il corpo sfiniti
Le tue sottili diafane mani, raggiungerò il tesoro della mia ritmica ricerca
Il sole dietro la lunga notte d’angoscia
La cascata e la stessa melopea, le mormoranti sorgenti della tua anima,
Vieni, la notte scende sulle terrazze bianche, e tu verrai
La luna accarezza il mare con la sua luce di cenere trasparente
Lontano riposano le stelle sugli abissi marini della notte
Come una via lattea si allunga l’Isola.
Ascolta, senti? Il ripetuto abbaiare che sale da Cap Manuel
E dal ristorante del pontile e dalla baia
Che musica strana, soave come il sogno
Cara !…
SENGHOR- POESIE DELL’ AFRICA
Leopold Sèdar Senghor, il massimo poeta africano, è una delle figure più autorevoli della cultura mondiale.
Padre della NEGRITUDINE, il grande movimento di affermazione della specificità culturale africana, è un cantore sublime dell’unità dell’uomo con la natura.
Senghor fu eletto primo Presidente della Repubblica del Senegal nel 1960, dopo la liberazione dal colonialismo francese, e ha guidato il suo paese per venti lunghi anni. Lui cristiano, in un paese musulmano, a dimostrazione della tolleranza religiosa esistente in Senegal.
Mesi fa un professore di Oxford, un certo Dawkins, se n’è uscito con un’ affermazione sconsiderata che mi ha riportato alla mente ciò che i nazisti trovavano utile fare per tutelare la cosiddetta ”razza pura”, e cioè eliminare tutti i disabili. Il suddetto nel suo delirio, affermava che di fronte alla diagnosi prenatale di SD ( sindrome di Down ), l’unica scelta giusta fosse quella di abortire visto che sempre per il suddetto sarebbe immorale partorire un tale bimbo. Lasciando da parte qualunque considerazione sull’aborto che non condivido, optando sempre per la vita, tranne forse in casi del tutto estremi, voglio qui riportare stralci di un’ intervista fatta alla mamma di un bambino Down di nove anni che risponde a Dawkins attraverso una lettera pubblicata sul ”Fatto Quotidiano” e poi su ”Repubblica”. Una risposta data da una donna intelligente e coraggiosa. Eccola :
”Un bambino con sindrome di Down è un bambino capace di dare tanto amore e come ogni altro bisognoso di riceverne altrettanto. L’amore può arrivare là dove la razionalità e il freddo quoziente intellettivo non arrivano. Mette in atto delle possibilità inaudite, è capace di trasmettere non solo emozioni e sentimenti positivi, ma anche di dare forza e energia, come il sole a una pianta, per lo sviluppo e la crescita delle potenzialità umane…E l’amore alimenta sempre altro amore, in un circolo virtuoso…Vorrei proporre a Dawkins un’immagine…Un bambino Down è come un quadrifoglio brillante in un campo di trifogli: ha presente? Il cromosoma in più, come quella quarta fogliolina, che la sapienza popolare valorizza come simbolo di fortuna, è un curioso scherzo della natura, ma non è niente di oscuro e terrificante: è ciò che rende speciali i nostri figli, nel bene e nel male”.
Come è cambiata grazie a suo figlio?
”Sono diventata più paziente, ma anche più determinata. Ho imparato ad aspettare ed a non attendermi sempre e subito il risultato migliore. Ho imparato a gestire molto meglio la frustrazione e anche ad affermare quello che penso, quando è necessario. Rispetto ad una volta, vivo molto più intensamente il presente e assaporo con più gusto le piccole gioie della vita. Evito di farmi prendere dal panico per imprevisti. Ho messo da parte i pregiudizi che avevo anch’io prima di vivere la mia situazione attuale; mi concentro di più sull’ascolto e sui sentimenti. Posso dire che mio figlio mi ha regalato un nuovo paio di occhiali con cui guardare le cose e le persone, e grazie a lui ho anche capito molto di più degli altri. Dalle reazioni che hanno nei suoi confronti,si vede bene chi si lascia guidare da pregiudizi, paure o imbarazzi o chi, invece ha un’anima sensibile. Mio figlio mi ha insegnato a far festa anche ai lati più reali della nostra esistenza, svelandomi che il vero valore dei nostri atti non risiede nella perfezione, ma nel come le cose si vivono e condividono.”
Sara Bisanti
Vi invito a leggere sul ”Fatto Quotidiano” la lettera completa in risposta al professore.
Inutile dire che sto totalmente dalla parte di Sara.
Vergine madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’eterno consiglio;
Tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che’l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.
Nel ventre tuo si raccese l’amore
per lo cui caldo nell’etterna pace
così è germinato questo fiore.
Qui se’ a noi meridiana face
di caritate, e giuso, intra i mortali,
se’ di speranza fontana vivace.
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia ed a te non ricorre,
sua disianza vuol volar sanz’ali.
La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fiate
liberamente al dimandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontade.
Dante Alighieri
Vergine Madre è ripresa dalla ”Divina Commedia” ( Paradiso XXXIII, 1-21 ). Si tratta della prima parte della preghiera che San Bernardo innalza alla Vergine perchè Ella con la sua intercessione ottenga a Dante la visione di Dio e dei supremi misteri. Il brano scelto è un’elevata espressione di lode, in cui Maria viene esaltata come la più alta tra le creature, destinata ad essere madre di Gesù, mediatrice universale di grazia, e di salvezza. Composta secondo l’arte retorica di cui Bernardo era ritenuto maestro, in un linguaggio denso pur senza sfoggio di dottrina, la preghiera, con felice gioco di antitesi, raccoglie motivi e formule della letteratura mariana di tradizione biblica e liturgica: vergine- madre, figlia- figlio, umile- alta…L’edizione italiana della Liturgia delle Ore ( 1974) ha collocato questo brano come inno nell’Ufficio delle Letture del Comune della Madonna . Per la prima volta un testo poetico di Dante entra nella preghiera liturgica.
Buona festa dell’Immacolata a tutti cari amici. Isabella
Le nuvole. Belle, di un candore immacolato, vanno e vengono, evanescenti, inafferrabili, perennemente mutevoli. E osservarle con il naso all’insù può stimolare in qualcuno un interesse maggiore che non sia solo legato ad un aspetto poetico quanto per indagare gli enigmi della natura .Ed infatti si occuparono di esse già Aristotele e Cartesio, grandi filosofi. Ma fu nella metà del Seicento che si avviò il primo progetto mondiale di studio sul clima. E ciò avvenne nel Granducato di Toscana. Qui governava Federico II de’ Medici, uomo dai molteplici interessi scientifici, il quale fece installare una dozzina di stazioni metereologiche, sistemate in vari osservatori astronomici, a partire dai suoi territori fino all’Europa centrale. Gli operatori all’interno, compilavano una tabella prestabilita rilevando temperatura, pressione, venti, umidità, visibilità e poi la inviavano a Firenze. La coraggiosa operazione andò avanti per tredici anni fino al 1667, quando insormontabili difficoltà di comunicazione, misero fine all’ambizioso progetto. Da quel tentativo tuttavia emergeva la necessità di avere dei riferimenti precisi riguardo i comportamenti della meteorologia. Impresa non facile che vide una passione naturale portare il giovane britannico Luke Howard (1772- 1864) a occuparsene partendo dall’aspetto più seducente del cielo, le nubi appunto. Raccontava di essere stato folgorato, ancora undicenne, dall’estate del 1783 quando a causa di due grandi eruzioni vulcaniche in Islanda e in Giappone, la volta celeste offriva spettacoli e colori indimenticabili. Figlio di un farmacista, anche lui si avviava allo stesso mestiere, ma scrutando e prendendo appunti quasi ossessivamente tutti i giorni sulle formazioni nuvolose che solcavano l’orizzonte, per cercare di distinguerle, scoprirne anche i loro meccanismi. Alla fine del Settecento l’Europa, scossa dalla rivoluzione francese, aveva innescato cambiamenti politici rilevanti accendendo anche interessi sociali e culturali verso la comprensione della natura prima inesistenti. I cittadini londinesi animavano la città in modo particolare dando vita e frequentando incontri dove si spiegavano gli enigmi della scienza. Ed era in Lombard Street che la Società Askesiana fondata da un gruppo di giovani quaccheri organizzava nel dicembre 1802 un incontro nel quale Luke Howard presentava le sue idee elaborate sulle nubi a lungo inseguite. Tra gli ascoltatori c’era Alexander Tilloch , editore di Philosophical Magazine, la più nota rivista scientifica inglese del momento. Impressionato dalle nuove e precisi descrizioni decideva di pubblicarle con il titolo ” Sulle modificazioni delle nubi. ” Scriveva Howard : ”Per consentire ai meteorologi di applicare lo strumento dell’analisi all’esperienza altrui, può forse essere opportuno introdurre una nomenclatura metodologica applicabile alle diverse forme di acqua sospesa( nell’atmosfera) , ovvero alla modificazione delle nubi.” E definiva tre tipi, Cirrus, Cumulus e Stratus ai quali poi aggiunse Nimbus. La semplice illustrazione delle mutevoli forme nuvolose veniva bene accettata non soltanto in Inghilterra ma anche in Europa grazie all’uso del latino, un linguaggio noto e comprensibile nei vari Paesi. In secondo luogo Howard si era adeguato al clima di ordinamento della natura inaugurato dal medico e botanico svedese Carl Linneo che aveva classificato scientificamente gli organismi viventi, piante e animali. Un criterio ben diverso aveva invece adottato in un tentativo analogo l’illustre contemporaneo e naturalista francese Jean – Baptiste de Lamarck, già noto e discusso autore di una prima teoria sull’evoluzione . Ma avendo fatto l’errore di utilizzare termini francesi questo affogò definitivamente il suo tentativo. La nomenclatura di Howard invece, si diffondeva rapidamente diventando anche un fenomeno culturale. Il grande letterato Goethe ne rimaneva tanto colpito da scrivere versi dedicati proprio ad Howard. Celebri uomini d’arte come i pittori romantici John Constable e William Turner guardavano e riproducevano il fascino misterioso delle nubi nei loro dipinti e il critico d’arte John Ruskin adottava la nomenclatura nell’esame dei quadri. In questo modo Luke Howard con ”l’invenzione delle nubi” diventerà il ”padre della meteorologia” e i suoi termini latini arricchiti da successive variazioni compaiono ancora oggi nelle carte dei meteorologi. E i venti ? Come si arrivò a studiarli ? Nel 1880 il capitano William Scoresby usava già le nuove tavole navigando sulla baleniera Resolution ma lamentava l’assenza di una valutazione simile per i venti dai quali il mare dipendeva. E tentava, senza successo, la composizione di una scala. In realtà anche un altro comandante, Francis Beaufort (1772- 1864) era impegnato sullo stesso fronte e dal 1806 aveva compilato una classificazione che iniziò ad usare nel suo viaggio in Sud America per delineare l’idrografia del Rio della Plata. Contava 14 gradi di forza del vento tra calma e tempesta, passando per brezza leggera, brezza fresca e vento moderato stabile. Il suo sforzo però, arriverà a compimento quando riuscirà a integrare i vari tentativi elaborati a partire dalla metà del Settecento, per i venti sulla terra e sul mare collegando la loro forza agli effetti sugli oggetti. A tal fine si era, ad esempio , considerata la pressione esercitata sulle pale dei mulini a vento. L’accettazione della sua proposta si rivelava comunque difficile, e soltanto nel 1829 quando sarà eletto idrografo della Marina, riuscirà a promuoverla con efficacia. Tra i primi ad adottarla , per suo ordine,ci fu il capitano Robert Fitzroy comandante del brigantino Beagle. I due nomi segneranno la storia della scienza, perchè, proprio Beaufort, fece da intermediario all’Ammiragliato sostenendo l’opportunità d’imbarcare sul brigantino il giovane naturalista Charles Darwin. Dal lungo viaggio nacque la scoperta dell’evoluzione descritta nella ”Origine della specie” la cui pubblicazione irritò Fitzroy fanatico antievoluzionista. L’impegno di Beaufort sarà premiato nel 1838 quando la Marina britannica adottò ufficialmente la sua scala imponendola su ogni bastimento. Intanto, dalla sua posizione, dirigeva numerose esplorazioni: da quella di John Franklin in Artico per cercare il passaggio a nord-ovest, alla spedizione di James Clark Ross per la misurazione del magnetismo terrestre. Non a caso con il suo nome veniva battezzato il Mare di Beaufort nell’Oceano Artico e l’isola di Beaufort nell’oceano Antartico. Così agli inizi dell’Ottocento, nel secolo del positivismo scientifico, le nubi e i venti avevano trovato i loro misuratori.
Se darete un’occhiata a questo link vi tufferete nella pittura di John Constable rimanendone piacevolmente colpiti come è successo a me.
fonte da un articolo di Giovanni Caprara su Sette 12-07-2013
Quell’estate il sole era di tutti i giorni. Ed io, che adoro la montagna, mi ero alzata presto per osservare le Dolomiti, che colpite dai raggi del sole, si coloravano di rosa per sorprendere chiunque avesse, come me, deciso di guardarle. Finalmente, pensavo, la Val di Fassa è nuovamente mia. Lasciai mio marito dormire e uscii. Ho sempre provato un piacere sottile nel sentire sulle mie guance quell’aria fresca , pulita, tipica di quei luoghi. E anche quella mattina sperimentavo la stessa cosa . Alba di Canazei si era già svegliata e si sentiva nell’aria profumo di pane fresco. Mi piaceva e mi piace tuttora camminare sola, e così improvvisamente ebbi quell’idea. Salire su, al rifugio del Contrin. Era quasi una sfida con me stessa. In realtà già da ragazza, con i miei e mio cugino affiliato del Cai, avevo sperimentato quel percorso che ormai conoscevo bene. Ma quella mattina, ero io , sola, che iniziavo il sentiero, ripido, pieno di pietre. L’aria fresca mi dava la carica e andavo sempre più su contenta, senza sentire fatica. La valle del Contrin è straordinaria per quella sensazione di calma che emana quando arrivi , finito il sentiero pietroso,in un grande slargo pianeggiante dove le mucche pascolano tranquille, e la via , più percorribile rilassa un pò dopo la fatica.Infatti, anche ora, mi godevo lo spettacolo osservando il rifugio ancora in alto e lontano. Tutto mi diceva però che sarei riuscita nell’impresa. E difatti con forza, con coraggio, da sola, continuavo ad andare. Perchè in pochi avevano avuto la mia stessa idea preferendo la sosta al bar ubicato alla fine del sentiero più faticoso. E così , vedendo la meta avvicinarsi, come uno scoiattolo,raggiunsi con un pò di fiatone, quella vetta, o meglio quel rifugio tanto agognato .Ero riuscita a vincere la sfida con me stessa e dopo aver fatto colazione, tornare indietro fu quasi una corsa tanta la soddisfazione, la carica interiore, per essere arrivata fino in fondo nella mia impresa e per la calda giornata di sole, in cui, tutti i colori della natura,risaltavano in uno spettacolo, per me, unico e straordinario.
Scusate ma il computer è impazzito : mi mette come data il tre invece che sette novembre. .Sorry
Trovo che andare in bicicletta sia divertente ma non troppo, quando sembra essere una moda, e si incontrano gruppi di ciclisti pedalare allegramente, ma pericolosamente, nel traffico cittadino. Ricordo che adolescente, amavo d’estate, in Veneto, andare in bici con mio fratello e mio cugino,ciclista nato. Conoscendo bene i luoghi della sua infanzia, preferiva guidarci per strade sterrate, risvegliando in noi lo stupore dato dallo scoprire alberi pieni di rosse ciliege contrastare con il bianco polveroso di percorsi senza asfalto. E poi costeggiare il fiume Brenta,dove mio padre da ragazzo faceva il bagno nella sua acqua fresca e limpida. Era straordinario vagare in libertà,osservando ciò che la natura offriva in quel momento. Ricordo le nostre risate e il sapore dell’avventura che ”condiva” quel girare in bici. Mi piacerebbe che anche oggi la bicicletta venisse usata nella maniera più giusta possibile, facendone circoscrivere l’uso a gite fuori porta seguendo percorsi naturali, piste ciclabili laddove ce ne siano, per usare questo mezzo con più consapevolezza e senza troppo fanatismo.