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Che cos’è la fotografia? Quell’arte  straordinaria per cui si riesce a fermare, con uno scatto, un’immagine, un momento particolare che colpisce sia lo sguardo, ma anche e forse di più il nostro immaginario, coinvolgendoci e facendoci partecipi di mondi talvolta sconosciuti. Qualunque soggetto può essere spunto per fare ottime foto. Varie sono le figure del fotografo: chi si specializza in riprese sottomarine, chi viene attirato da scorci romantici, chi addirittura diviene esperto nel riprendere in luoghi di guerra situazioni, episodi, verità raccapriccianti. Oggi la fotografia, con la tecnica digitale si è molto evoluta, grazie anche all’autofocus il fotografo ha molte più possibilità, e attraverso tecniche sofisticate può elaborare foto, correggerle laddove ce ne fosse bisogno, consegnando a chi vuole osservarle opere sempre più perfette. Tutto questo per introdurre e raccontare, fin dove ne sarò in grado, una mostra fotografica molto particolare, che ho visitato nel marzo dello scorso anno, con i miei figli, al Museo Trastevere di Roma: ”Evgen Bavcar: il buio è uno spazio”. Dirò, che avendone sentito parlare in televisione,  ne ero fin da subito rimasta affascinata e incuriosita. Un pò perchè mio figlio, fotografo dilettante, avrebbe potuto, pensavo, trarne giovamento,  ma soprattutto perchè volevo osservare da vicino le opere di questo autore di cui parlerò più avanti. Oggi dove tutto ormai è apparenza, siamo sempre più bombardati da immagini, tanto da osservare distrattamente ciò che ci capita sottomano ( nei giornali, ad esempio, che talvolta sfogliamo in fretta) e non sempre focalizziamo ciò che il nostro occhio vede rappresentato. Ma nel momento in cui, con calma, prendendo tutto il tempo che ci serve, andiamo a visitare una galleria fotografica, dove immaginiamo l’autore, con la sua macchina  intento ad inquadrare, mettere a fuoco un qualsivoglia soggetto e poi scattare, siamo consapevoli che abbia VISTO tutto quello che c’era da vedere prima di fermare l’immagine con uno scatto. Ebbene, niente di questo discorso è valido per Evgen Bavcar, in quanto sto per parlare  di un ”fotografo” che non vede cioè cieco,   che  può solo ricordare ciò che ha visto fino all’età di dodici anni. Nato in Slovenia nel 1946, infatti a 12 anni , in seguito a due incidenti succeduti a breve distanza l’uno dall’altro, perde completamente la vista, senza perdere tuttavia la volontà di combattere uno stato che dalla luce lo porterà a vivere per sempre  nel buio più totale. Con forza d’animo studierà fino a laurearsi a Parigi in filosofia. Per France Culture condurrà varie trasmissioni radiofoniche ,formandosi piano piano, anche se come lui dice ”non esistono vere e proprie scuole di formazione fotografica per ciechi”, diventando nel 1988 fotografo ufficiale del ”Mois de la Photografie” a Parigi (mese della fotografia). Dall’inizio degli anni novanta è tra i fotografi più richiesti d’Europa e nel 1992 l’editore francese Seuil  ha pubblicato un volume con fotografie e saggi. I suoi lavori sono stati esposti in varie mostre personali e collettive, a Parigi, Milano,Colonia, Berlino, addirittura fino in Argentina. Le sue foto, che sono contenta di aver potuto vedere, hanno qualcosa di magico.  In esse, tutte in bianco e nero, solo una o due a colori, Bavcar rappresenta il mondo che è impresso nella sua memoria  attingendo ad essa come da ”un presepe di ricordi” come dicono in molti. .Non so come riesca a fotografare, anche se probabilmente in sè può essere anche facile dopo averlo imparato come tecnica ,ma riuscire a far sì che le foto si avvolgano di un alone di magico mistero  forse è più difficile. Bavcar ci riesce  prima di tutto attingendo  a ciò che è rimasto immagazzinato dentro di lui, (colori, odori, rumori, suoni), fotografando  e avvolgendo le foto di una luce particolare, facendosi aiutare come lui stesso dice”dall’autofocus e dagli infrarossi perchè il buio è lo spazio della mia esistenza”. Ed ecco allora la foto di una strada circondata da alberi in Slovenia , dove la luce ne illumina un tratto rendendola misteriosa. O corpi di modelle nude, dove mani misteriose si allungano a tastare quei corpi, quasi, attraverso quel contatto, a realizzarne l’esistenza. Un occhio che non vede, ma capace di penetrare mondi  distanti da noi anni luce. Bavcar è oggi un signore colto che parla cinque lingue,e va in giro con un grande”borsalino”in testa , ed una lunga sciarpa rossa al collo,  appoggiandosi ad un bastone. Una figura emblematica, interessante, tutta da scoprire.

<< Io non tocco gli oggetti ma” li guardo da vicino”. Offro alla vostra vista la trascendenza delle immagini che esprimono lo sguardo spirituale del mio terzo occhio>>.   Evgen Bavcar

Ed   ora   lasciamo   parlare   le   sue   foto

 

 

 

 

 

 

 

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Quando ultimamente sono stata in Francia, prima di tornare a casa,per tenermi un pò in ordine, sono andata dal parrucchiere.Anche se la conversazione non è il mio forte, poichè mi piace molto il francese come lingua, mi sono messa a parlare  con la ragazza che mi ”acconciava” chiedendole anche un giornale. Poche parole per carità, ma bastanti a farmi capire. Ora, la lettura è per me più facile rispetto al parlare in francese e così da quel giornale, vi propongo un articolo che ho tradotto trovandolo molto interessante. Si tratta del rapporto intercorso tra i pittori George Braque e Pablo Picasso, artisti che insieme daranno vita al movimento ”cubista”, pur rimanendo l’artista spagnolo, quello tra i due, il più ricordato. Due giorni fa la mia amica Silvia, ha postato un articolo sempre su Braque dando notizia , di una sua mostra di opere a Parigi al ”Grand Palais” dal 18 settembre 2013 al 6 gennaio 2014 (volevo segnalare che è la prima dal 1973),e  facendoci vedere le opere ivi rappresentate da lei fotografate. Opere, che secondo il mio modesto parere, non sono per nulla inferiori a quelle di Picasso. Ma veniamo all’articolo.<< Apollinaire, presentando un giorno Braque a Picasso verso la fine del 1907, non ebbe dubbi sul dialogo creativo che andava nascendo tra i due pittori. Al momento del loro incontro i due pittori occupavano dei posti molto differenti nel panorama artistico parigino. Picasso era già considerato un uomo dalla personalità forte ed indipendente. Alcuni collezionisti avevano acquistato delle tele dei suoi periodi blu e rosa, e l’interesse che Ambrogio Vollard, mercante d’arte tra i più rinomati all’epoca, portava alle sue opere, non faceva che aggiungere prestigio al suo nome. La carriera di Braque, al contrario era stata più lenta e meno precoce. Fino alle sue magnifiche tele esposte al ”Salone degli indipendenti” del 1907 ( La Baie de la ciotat), non aveva fatto niente di rimarchevole. E’ nel 1908 che Braque e Picasso cominceranno a vedersi quotidianamente, a visitare insieme esposizioni e musei,ad avere lunghe discussioni confrontando le proprie tele. Essi rimasero sorpresi nel constatare che le loro ricerche andavano nella stessa direzione ( Braque, ”Maison à l’estaque”; Picasso, ”La Rue-des-Bois”). Ma di quali ricerche si trattava? Si comprende lo sbigottimento dei contemporanei di fronte a delle tele<< cubiste>> dove i due pittori sembravano vedere il mondo come attraverso un vetro rotto. Gli stessi cubi tendono a sparire per fare posto a degli angoli acuti, a dei triangoli dipinti sulle tele in modo tale da sembrare incastrati gli uni negli altri ( Braque, ”Joueur de mandoline”). Gli oggetti non hanno più contorni e sembrano rotti. La visione cubista non  è più quella dell’apparenza  ma  quella dello spirito e dell’intelligenza. Tra i due artisti le differenze sono minimali: primato della figura umana per Picasso che cristallizza le zone del viso; e ossessione per la natura morta  per Braque  desideroso di mantenere un contatto con la realtà.  Questi duetti permettono di entrare nel gioco degli scambi di giorno in giorno, fino a far scoprire in tutti e due quelle specificità che  porteranno i due pittori a dividere le loro strade avendo Picasso un rigore ed una predisposizione a classificare in serie le problematiche pittoriche,  laddove Braque seguiva invece più l’immaginazione. ( to be continued)

 

PARTE   SECONDA

 

Al momento della dichiarazione di guerra, Braque dovette raggiungere il suo reggimento a Parigi. Picasso l’accompagnò così alla stazione di Avignone. Ciò mise fine al loro dialogo creativo durato tanti anni. Di colpo, la maggior parte degli scrittori e dei critici cominciò a parlare dell’artista spagnolo come del fondatore del movimento ” cubista”. Peggio: quando Braque era menzionato, lo si citava come semplice discepolo. Sarebbe nondimeno bastato mettere in parallelo  le tele dei due pittori per riconoscere la loro perfetta connivenza, ma le ragioni del primato di Picasso agli occhi del pubblico erano evidenti: la sua personalità era più brillante che non quella di Braque. Tutti vedevano in lui il capofila della pittura d’avanguardia. Fu dopo la guerra che si cominciò a comprendere il vero ruolo che Braque ebbe nell’invenzione del cubismo. Daniel Henry Kahnweiler, che fu il loro mercante d’arte, scrisse nel 1920 : << Nell’elaborazione del nuovo stile, gli apporti all’uno e all’altro furono strettamente intrecciati. La loro ricerca mentale scambievole e parallela ha cementato l’unione di due temperamenti del tutto differenti>> Ormai separati, i due artisti continueranno ad informarsi l’uno dell’altro, ma che differenza tra Picasso, già quasi statua in vita, che trasforma tutto quello che tocca in oro, e la vita di Braque , vissuta senza quell’ardimento che avrebbe magari illuminato la sua pittura. Insomma mentre Picasso ha diritto ad esposizioni continue tutti gli anni, lungo le coste dell’Atlantico, Braque ha oggi la sua mostra a Parigi ben dopo quarant’anni. Per fortuna tutto qui è rappresentato, i  suoi capolavori e le opere chiave. Vi si ritroverà la predilizione  dell’artista per gli interni e le nature morte, la lenta e profonda riflessione che non ha cessato di sostenere le sue invenzioni plastiche e la sobria gravità del suo pennello che fanno di lui l’erede dei grandi maestri del classicismo francese, da Nicola  Poussin a Paul Cèzanne.>> Spero che questo articolo , che mi ha impegnato abbastanza perchè molto lungo, sia per voi interessante così come lo è stato per me.

fonte: Le Figaro Magazine settembre 2013-mia traduzione