artgeist.it
Brilla la luna tra il vento d’ autunno,
nel cielo risplendendo come pena lungamente sofferta.
Ma non sarà il poeta a rivelare
le ragioni segrete, il segno indecifrabile
di un cielo liquido di ardente fuoco
che annegherebbe le anime,
se sapessero il loro destino sulla terra.
La luna quasi mano
divide ingiustamente, come bellezza usa,
i suoi doni sul mondo.
Guardo pallidi volti.
Guardo fattezze amate.
Non sarò io a baciare il dolore che nei volti si mostra.
Solo la luna può chiudere, baciando,
quelle palpebre dolci che la vita ha stancate.
Quelle labbra lucenti, labbra di luna pallida,
labbra sorelle per i tristi uomini,
sono un segno d’ amore nella vita deserta,
sono il concavo spazio dove l’ uomo respira
e vola sulla terra ciecamente girando.
Il segno dell’ amore nei volti amati a volte
è solo la bianchezza brillante,
la dischiusa bianchezza di quei denti che ridono.
Allora si che in alto la luna si fa pallida,
si estinguono le stelle
e c’è un’ eco remota, uno splendore ad oriente,
vago suono di soli che anelano ad irrompere.
Quale gioia, che giubilo quando il riso rifulge !
Quando un corpo adorato,
eretto nel suo nudo, brilla come la pietra,
come la dura pietra infiammata dai baci.
Guarda la bocca. In alto diurno un lampeggiare
attraversa un bel volto, un cielo dove gli occhi
non sono ombra, ciglia, inganni rumorosi,
ma la brezza di un’ aria che percorre il mio corpo
come un’ eco di giunchi che cantano levati
contro le acque vive, fatte azzurre dai baci.
Il puro cuore amato, la verità, la vita,
la certezza di un amore irraggiante,
la sua luce sui fiumi, il suo nudo stillante,
tutto vive, resiste , sopravvive ed ascende
come brace lucente di desiderio ai cieli.
Ormai è soltanto il nudo. Solo il riso nei denti.
La luce, la sua gemma folgorante : le labbra.
E’ l’ acqua che piedi adorati bacia,
come occulto mistero bacia la notte vinta.
Ah meraviglia lucida di stringer nelle braccia
un odoroso nudo, circondato da boschi !
Ah mondo solitario che sotto i piedi gira,
ciecamente cercando la sua sorte di baci !
Io so chi ama e vive, chi muore e gira e vola.
So che lune si estinguono, nascono, vivon, piangono.
So che due corpi amano, due anime si fondono.
trad. di M. Vazquez Lopez
Vicente Aleixandre
poeta spagnolo (Siviglia 1898-Madrid 1984). Come gli altri scrittori appartenenti alla “Generazione del ’27”, fu sensibile alle correnti estetiche di avanguardia e per molti aspetti la sua poesia può definirsi surrealista, sebbene l’entroterra culturale su cui si modella a sua esperienza sia la grande tradizione poetica di lingua spagnola, e in particolare Góngora e Rubén Darío. Nella sua ricerca Aleixandre tenta di trascendere il piano della coscienza per far emergere le possibilità espressive dell’inconscio, che si configura in una visione del mondo quasi panteistica, in cui la metafora accosta, attraverso immagini e contrasti, aspetti diversi della natura e dell’uomo: spesso le sue metafore alternano visioni fortemente pessimistiche ad analisi più tendenti alla fiducia nel progresso. Uno dei temi ricorrenti della sua poesia è il rifiuto ostile della città e la ricerca di un paradiso che è proiezione dell’infanzia. Fra le sue opere principali sono da ricordare: Ámbito (1928), Espadas como labios (1932; Spade come labbra), Pasión de la tierra (1935; Passione della terra), La destrucción o el amor (1935; La distruzione e l’amore), Sombra del Paraíso (1944; Ombra del Paradiso), Nacimiento último (1953), Historia del corazón (1954; Storia del cuore), En un vasto dominio (1962; In un vasto dominio), Poemas de la consumación (1968; Poemi della consunzione), Sonido de la guerra (1972), Poesía superrealista (1971), Diálogos del conocimiento (1974 e 1976; Dialoghi del conoscere), opera nella quale la poesia approda nell’ambito della riflessione filosofica intorno al tema della morte. Nel 1977 è stato insignito del premio Nobel per la letteratura. Pubblicazioni postume: Epistolario (1986), a cura di J. L. Cano e Nuevos poemas varios (1987; Nuove poesie).
da Sapere.it
Vorrei essere
per te
mistero e incanto.
Ammaliarti
come la maga Circe.
Vorrei
legarti
a me,
tenerti
prigioniero
di un sogno
che trasformerò
in realtà.
Lascia
ch’io sia
per te
mistero
che si svela,
incanto
da vivere.
Fa
ch’io
possa posare
le mie labbra
sulle tue.
Assaporerai
ciò che
di più dolce
al mondo non esiste,
tanto
che mai più
cercherai altrove.
Isabella Scotti
Dalla mia raccolta ”Il su e giù dell’amore”
Padre mio, mi sono affezionato alla terra quanto non avrei creduto. E’ bella e terribile la terra. Io ci sono nato quasi di nascosto, ci sono cresciuto e fatto adulto in un suo angolo quieto, tra gente povera, amabile ed esecrabile. Mi sono affezionato alle sue strade, mi sono divenuti cari i poggi e i suoi uliveti, le vigne, perfino i deserti. E’ solo una stazione per il Figlio tuo la terra, ma ora mi addolora lasciarla e perfino questi uomini e le loro occupazioni, le loro case, i loro ricoveri. Mi dà pena doverli abbandonare. Il cuore umano è pieno di contraddizioni ma neppure un istante mi sono allontanato da te. Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi, o avessi dimenticato di essere stato. La vita sulla terra è dolorosa ma è anche gioiosa. Mi sovvengono i piccoli dell’uomo, gli alberi, gli animali. Mancano oggi qui, su questo poggio che chiamano ”Calvario”. Congedarmi mi dà angoscia più del giusto. Sono stato troppo uomo tra gli uomini, o troppo poco ? Il terrestre l’ho fatto troppo mio o l’ho rifuggito ? La nostalgia di Te è stata continua e forte. Tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna. Padre non giudicarlo questo mio parlarTi umano quasi delirante, accoglilo come un desiderio d’amore, non guardare alla sua insensatezza. Sono venuto sulla terra per fare la tua volontà, a volte l’ho anche discussa, sii indulgente con la mia debolezza. Te ne prego. Quando saremo in cielo ricongiunti, sarà stata una prova grande ed essa non si perde nella memoria dell’eternità. Ma da questo stato umano di abiezione vengo ora a te, comprendimi, nella mia debolezza.
Mi afferrano, mi alzano alla Croce, piantata sulla collina. Ahi Padre m’inchiodano le mani e i piedi…
Qui termina veramente il cammino.
Il debito dell’iniquità è pagato all’iniquità.
Ma Tu sai questo mistero.
Tu solo.
Penso che leggere queste parole scritte da Mario Luzi per la Via Crucis del 1999, non possano che non entrare direttamente in ciascuno di noi.. Colpisce ( almeno è ciò che è capitato a me) come Luzi abbia trattato l’umanità di Gesù. La sua paura, la sua angoscia nel dover affrontare la morte, è la stessa penso, di tutti noi, è ciò che ce lo fa sentire vicino, possiamo comprenderne la tristezza per essere costretto ad abbandonare questo mondo, e Luzi rende bene il concetto quando fa dire a Gesù : ” Mi sono diventati cari i poggi e i suoi uliveti…” ed il timore di affrontare qualcosa di cui ancora ignora come sarà. Auguro che ciascuno possa un attimo riflettere su ciò che siamo e su ciò che ci aspettiamo da questa vita. La preghiera aiuta molto, sempre, anche nei momenti peggiori, anzi proprio con la preghiera si possono superare momenti di sconforto e dolore. L’ho sperimentato varie volte, ve lo assicuro. La morte, il dolore ci appartengono, sono la vita. Affidiamoci come Gesù al Padre, pur nel timore e angoscia. Auguro a tutti voi una serena Pasqua. Vi voglio bene. Isabella
Che cos’è la fotografia? Quell’arte straordinaria per cui si riesce a fermare, con uno scatto, un’immagine, un momento particolare che colpisce sia lo sguardo, ma anche e forse di più il nostro immaginario, coinvolgendoci e facendoci partecipi di mondi talvolta sconosciuti. Qualunque soggetto può essere spunto per fare ottime foto. Varie sono le figure del fotografo: chi si specializza in riprese sottomarine, chi viene attirato da scorci romantici, chi addirittura diviene esperto nel riprendere in luoghi di guerra situazioni, episodi, verità raccapriccianti. Oggi la fotografia, con la tecnica digitale si è molto evoluta, grazie anche all’autofocus il fotografo ha molte più possibilità, e attraverso tecniche sofisticate può elaborare foto, correggerle laddove ce ne fosse bisogno, consegnando a chi vuole osservarle opere sempre più perfette. Tutto questo per introdurre e raccontare, fin dove ne sarò in grado, una mostra fotografica molto particolare, che ho visitato nel marzo dello scorso anno, con i miei figli, al Museo Trastevere di Roma: ”Evgen Bavcar: il buio è uno spazio”. Dirò, che avendone sentito parlare in televisione, ne ero fin da subito rimasta affascinata e incuriosita. Un pò perchè mio figlio, fotografo dilettante, avrebbe potuto, pensavo, trarne giovamento, ma soprattutto perchè volevo osservare da vicino le opere di questo autore di cui parlerò più avanti. Oggi dove tutto ormai è apparenza, siamo sempre più bombardati da immagini, tanto da osservare distrattamente ciò che ci capita sottomano ( nei giornali, ad esempio, che talvolta sfogliamo in fretta) e non sempre focalizziamo ciò che il nostro occhio vede rappresentato. Ma nel momento in cui, con calma, prendendo tutto il tempo che ci serve, andiamo a visitare una galleria fotografica, dove immaginiamo l’autore, con la sua macchina intento ad inquadrare, mettere a fuoco un qualsivoglia soggetto e poi scattare, siamo consapevoli che abbia VISTO tutto quello che c’era da vedere prima di fermare l’immagine con uno scatto. Ebbene, niente di questo discorso è valido per Evgen Bavcar, in quanto sto per parlare di un ”fotografo” che non vede cioè cieco, che può solo ricordare ciò che ha visto fino all’età di dodici anni. Nato in Slovenia nel 1946, infatti a 12 anni , in seguito a due incidenti succeduti a breve distanza l’uno dall’altro, perde completamente la vista, senza perdere tuttavia la volontà di combattere uno stato che dalla luce lo porterà a vivere per sempre nel buio più totale. Con forza d’animo studierà fino a laurearsi a Parigi in filosofia. Per France Culture condurrà varie trasmissioni radiofoniche ,formandosi piano piano, anche se come lui dice ”non esistono vere e proprie scuole di formazione fotografica per ciechi”, diventando nel 1988 fotografo ufficiale del ”Mois de la Photografie” a Parigi (mese della fotografia). Dall’inizio degli anni novanta è tra i fotografi più richiesti d’Europa e nel 1992 l’editore francese Seuil ha pubblicato un volume con fotografie e saggi. I suoi lavori sono stati esposti in varie mostre personali e collettive, a Parigi, Milano,Colonia, Berlino, addirittura fino in Argentina. Le sue foto, che sono contenta di aver potuto vedere, hanno qualcosa di magico. In esse, tutte in bianco e nero, solo una o due a colori, Bavcar rappresenta il mondo che è impresso nella sua memoria attingendo ad essa come da ”un presepe di ricordi” come dicono in molti. .Non so come riesca a fotografare, anche se probabilmente in sè può essere anche facile dopo averlo imparato come tecnica ,ma riuscire a far sì che le foto si avvolgano di un alone di magico mistero forse è più difficile. Bavcar ci riesce prima di tutto attingendo a ciò che è rimasto immagazzinato dentro di lui, (colori, odori, rumori, suoni), fotografando e avvolgendo le foto di una luce particolare, facendosi aiutare come lui stesso dice”dall’autofocus e dagli infrarossi perchè il buio è lo spazio della mia esistenza”. Ed ecco allora la foto di una strada circondata da alberi in Slovenia , dove la luce ne illumina un tratto rendendola misteriosa. O corpi di modelle nude, dove mani misteriose si allungano a tastare quei corpi, quasi, attraverso quel contatto, a realizzarne l’esistenza. Un occhio che non vede, ma capace di penetrare mondi distanti da noi anni luce. Bavcar è oggi un signore colto che parla cinque lingue,e va in giro con un grande”borsalino”in testa , ed una lunga sciarpa rossa al collo, appoggiandosi ad un bastone. Una figura emblematica, interessante, tutta da scoprire.
<< Io non tocco gli oggetti ma” li guardo da vicino”. Offro alla vostra vista la trascendenza delle immagini che esprimono lo sguardo spirituale del mio terzo occhio>>. Evgen Bavcar
Ed ora lasciamo parlare le sue foto