Anche se siamo già ad ottobre parliamo ancora d’ estate…
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Masseria Narducci – foto booking.com
Vorrei
di te
poter
raccontare
il colore
d’estate
che
ti tramuta
in perla rara.
Vorrei
di te
parlare,
regalando
l’immagine
perfetta
di quello
che sei.
Terra
di Puglia,
che con le mani
raccolgo,
quando
in campagna
tra secolari ulivi
m’ attardo.
Bisbiglii
di uccelli,
canti che
si perdono
sommessi
tra
rami
d’alberi
di antica
memoria.
Il vento
viene
dal mare,
smuove
cespugli,
gli oleandri
in fiore,
mentre
i muretti
a secco,
si fan bollenti,
quando
il sole
di mezzogiorno
raggiunge
il punto
più alto.
Intanto
d’ intorno
profumi
deliziosi
si perdono
nell’ aria.
Fiori
di mandorlo,
frutta odorosa,
fico selvatico,
miele d’ arancia.
E com’ è dolce
poter godere
dell’ aria salentina
al riparo
del bianco
porticato
della masseria,
mentre un cielo
pieno di stelle
illumina
la mia sera.
Isabella Scotti settembre 2020
testo : copyright legge 22 aprile 1941 n° 633
Avete mai notato come i milanesi, quando si tratta del Buon Mangiare, siano soliti usare gentili vezzeggiativi? Le polpette ad esempio diventano ”pulpetin”, il pane ”panett o michett” le rane ”ranine”, insomma una curiosa, simpatica mania che ha caratterizzato nel dire, anche un pane straordinario, più grosso del normale , ma soprattutto, particolarmente ricco, invitante, ghiotto: il ” Panetùn” meglio conosciuto come ”Panettone”.
Cosa sarebbe il Natale senza questo dolce sulle nostre tavole imbandite nei giorni delle festività ? E’ pur vero che si attornia di altri degni colleghi quale il genovese pan dolce, il veronese pandoro, il senese panforte, l’altoatesino zelten , tutte prelibatezze per il nostro palato, vecchie deliziose glorie intramontabili, nate tutte , più o meno, intorno all’anno Mille, ai tempi delle crociate, delle sete preziose, delle spezie raffinate, dello zucchero, della frutta candita, dell’uva passa, dei pinoli , anche se oggi si tende per lo più ad arricchire di scaglie di cioccolato ed altre creme questi dolci unici. In origine ”el Panatùn” veniva generalmente consumato quasi come un cibo di rito, proprio alla vigilia di Natale ”mentre nel camino ardeva un ceppo ornato di fronzoli e mele.” Secondo le cronache del tempo ”in quell’occasione, il capo famiglia tagliava a fette quel grosso pane e tutti lo mangiavano con devozione, conservando le croste, che servivano come panacea contro il mal di gola.”Secondo una leggenda, fu un certo Antonio, detto ”Toni”, il primo che ebbe l’idea di aggiungere all’acqua e farina dell’impasto di questo pane un pò d’uva passa e forse del miele. Un primo, timido passo, che bastò per battezzarlo col nome di ”pan de Toni” e quindi più tardi : ‘‘Panettone”. Siamo nel vago ma si sa le leggende si accontentano di poco. Per altri sarebbe stato un certo Ughetto Antellano, nobile milanese vissuto ai tempi di Ludovico il Moro, verso la fine del 1400, ad aver avuto la magica idea. Infatti si racconta che innamoratosi di una certa Adalgisa, fornaia, messer Ughetto si sarebbe finto fornaio anch’esso, e per stupire l’amata si dice che riempisse quel povero pane tozzo e grosso di ogni più ricca leccornia, fino a sedurre la sbalordita Adalgisa. Non si sa comunque se tutto finì bene e se vissero felici e contenti, sembra che l’Adalgisa a parte la seduzione del panettone, sia poi scappata con un altro ma poco importa. Quello che conta è ciò, che rimanendo scritto su ”carta” si tramanda a noi , ed ecco allora il grande Cristoforo da Messisburgo, al servizio di Ippolito d’Este, a Ferrara, che verso la metà del 1500 così scrive nel suo ricettario : ”pani di latte e zuccaro con aggiunta di tuorli d’ove , burro e acqua di rose”. Sarà questo il ”Panatùn” ?
E il ” gateau de Milan”, prediletto da Caterina de’ Medici che doveva nel 1533 andare in sposa ad Enrico II di Francia per diventare poi regina dei francesi nel 1547, non era forse già il nostro panettone? Chissà…
La prima testimonianza seria arrivò probabilmente un secolo più tardi nel 1650, quando un medico bolognese, certo Vincenzo Tanara, autore del trattato ”L’economia del cittadino in villa” scrive a pag. 30 ”I nostri cittadini con minor spesa impastano con lievito acqua mielata ( miele diluito) incorporandovi dentro uva, zucca candita in miele e ne fanno un grosso pane, quale chiamano Pan di Natale.” Ecco, questa è la ricetta base da cui partire. Il miele più tardi sarà sostituito dallo zucchero e altri ingredienti compariranno, ma la formula è quella: un dolce dalla forma tozza, schiacciata. Finchè un giorno negli anni Venti, arriverà il colpo d’ala del genio, quasi un’altra leggenda, ma che in realtà è storia : storia vera, rivoluzionaria, della gastronomia o meglio della pasticceria. Arriva Angelo Motta, di Villa Fornaci, figlio di un cocchiere, classe 1890, emigrato a Milano all’età di 10 anni, che una ventina d’anni dopo, nel suo forno di via Chiusa, ”trasforma ” il panettone da basso in alto, intuisce il colpo magico della super- lievitazione, senza trascurare il valido sostegno di quella voluttuosa ” guepiere” o ”busto di carta oleata”. Collega, amico e rivale, apparirà pure sulla scena un altro grande, Gino Alemagna di Melegnano, di famiglia modesta, nato maestro pasticcere. Inizierà così la grande epopea del panetùn che da Milano conquisterà l ‘Italia e sarà spedito in tutto il mondo.
Allora a questo punto, buon appetito a tutti con una buona fetta di panettone. ( A me non piace molto l’uvetta e mi piacciono poco i canditi, per cui preferisco, viste anche le mie origini, il pandoro, ma questa è un’altra storia. )
RAGAZZI DIMENTICAVO : BUON 2015 A TUTTI
fonte: da un articolo di Carlo Tosi
Ogni volta che nei secoli passati i pellegrini cominciavano i loro lunghissimi viaggi per raggiungere i sacri luoghi, dovevano mettere in conto la possibilità di contrarre malattie oltre ovviamente l’imbattersi in pericoli talvolta imprevedibili. Spesso c’era la possibilità che non si potessero raggiungere le tanto mete agognate ( Roma, Santiago o la lontanissima Gerusalemme) per coloro che sfortunati dovevano soccombere prima. Le ”Cronache ” medievali riportano che nel solo ospedale di Firenze, durante il periodo del Giubileo, venivano registrati fino a venti morti al giorno tra i ”forestieri” che vi passavano diretti a Roma. In quel periodo animali feroci e briganti transitavano ancor più forse dei pellegrini e questi ultimi, patendo la fame e la sete per mancanza d’acqua potabile, erano destinati a soccombere. In più certamente la paura dell’ignoto e l’incertezza di non potere ritornare rendeva il viaggio ancora più difficile. Tanti facevano testamento prima di partire per lasciare ai propri cari i loro averi se pur pochi. La cosa peggiore però che poteva capitare ai pellegrini, era all’improvviso ammalarsi. La malattia era imprevedibile quanto minacciosa e implacabile. Si poteva avere di fronte un nemico terribile, in grado di provocare ferite, menomazioni, infezioni tali da portare alla morte. Ecco quindi che proprio per offrire conforto al pellegrino, lungo i percorsi più battuti, si potevano incontrare ospizi che avevano la funzione di alloggiare gli ammalati dando loro oltre che un aiuto anche informazioni mediche che rendessero sicuro il viaggio. Secondo alcune fonti antiche, pare che in alcuni luoghi ci fosse un buon livello di professionalità. Ad Altopascio per esempio, venivano prescritte diete appropriate sia per gli ammalati che per i sani e consigliate regole alimentari diversificate per l’estate e per l’inverno. Si facevano turni di guardia agli infermi e si somministravano medicinali e pozioni per l’insonnia, febbre o malattie infettive. Spesso i pellegrini avevano per i lunghi percorsi fatti, piaghe ai piedi, lesioni più o meno gravi , ulcerazioni, e venivano allora curati con erbe di vario tipo. Una delle ricette più efficaci la possiamo trovare nel prezioso codice membranaceo ” De sanitatis custodia” redatto dal medico Jacopo Piemontese. Per chi aveva i piedi congelati prescriveva un unguento a base di ” trementina, resina bianca, olio e mastice” che doveva essere versato ancora caldo su un panno molle e applicato su gambe e piedi. Il Grataroli, un affermato medico del XVI secolo, aveva redatto un testo pieno di utili consigli e ricette per curare numerose malattie comuni: il suo De Regimine viatoribus et peregrinatoribus, dato alle stampe nel 1561, va considerato la prima pubblicazione a cui fare riferimento per l’igiene personale e per una corretta alimentazione da tenere durante il viaggio, sia per prevenire che per affrontare situazioni particolari come sopportare ad esempio gli stimoli della fame o della sete, o come far fronte per superare intossicazioni dovute ad avvelenamenti di cibo o come combattere l’insorgenza della febbre. Il Grataroli consigliava per i piedi ulcerati bagni con cenere e camomilla o applicazioni con sterco di gallina e per debellare le ragadi unguenti a base di cera vergine,miele e olio. Per la cura del sonno, che per il pellegrino doveva essere profondo e ristoratore, il medico offriva efficaci consigli sul modo di addormentarsi e talvolta per coloro che non riuscivano lo stesso a prender sonno, un buon bicchiere di vino rosso prima di coricarsi. Per debellare i pidocchi di cui i giacigli negli ostelli erano pieni, consigliava decotti di papavero o sciroppi di ninfee. Per i più fortunati che facevano il viaggio a cavallo, altri tipi di fastidi erano comunque in agguato dovuti ad esempio alle continue sollecitazioni della sella su di una parte piuttosto ”delicata” del cavaliere. E allora qui era d’uopo premunirsi con pomate che all’occorrenza venivano spalmate sulle parti doloranti da volenterosi locandieri. Sempre il Grataroli consigliava, d’inverno, attraversando valichi alpini, di ungere preventivamente le palpebre con particolari misture per proteggere gli occhi dall’abbagliante biancore della neve o proteggere gli stessi con lenti da legarsi attorno alla testa. Fondamentale durante il lungo cammino per evitare svenimenti era portare con sè un pò di menta romana il pulegium che offriva le stesse prestazioni del cosiddetto ”pomo d’ambra”, che sprigionava un aroma utilissimo appunto nel caso di svenimento ( un pò come l’aceto che usiamo oggi per la stessa cosa). Per proteggere il viso dalle bruciature del sole e del vento, una crema semplice ed economica si otteneva macerando dei lupini nell’acqua aggiungendo l’omphacium oleum( probabilmente un estratto ottenuto da olive oppure da uve acerbe) o la più costosa medulla cervina ( midollo di cervo). Per le labbra si poteva applicare uno strato di grasso d’oca o di midollo di bue ottimi come crema protettiva. Tra i rimedi più antichi utilizzati dai pellegrini più ferventi, che non credevano molto alla scienza medica, c’era l’invocare prima di ogni partenza i ”dottori celesti” al fine di scongiurare i pericoli e i malanni più gravi : la malattia era vista infatti come personificazione della tentazione demoniaca e del peccato che s’impadroniva del corpo mortale del pellegrino e necessitava quindi della protezione di efficaci mediatori divini. Agli angeli custodi e agli arcangeli Michele, Gabriele, e Raffaele si affiancavano i santi protettori del cammino – i fratelli medici e martiri Cosma e Damiano, San Cristoforo, San Mauro, San Rocco, San Giuliano – ai quali erano dedicati numerosissimi santuari, chiese e cappelle lungo i percorsi battuti dai pellegrini. San Rocco era il più invocato a partire dal XIV secolo, e la sua infallibilità taumaturgica sembra comprovata dalla miracolosa guarigione dalla peste di un cardinale e di un papa. Le guarigioni potevano essere ottenute recitando una preghiera e segnando ripetutamente sul corpo del malato il simbolo della croce. Qualora tutto ciò non bastasse, un rimedio efficace era costituito dal contatto con le sante reliquie. Queste, incontrate e venerate nelle varie tappe del cammino, costituivano una ”vera e propria terapia”, nell’insorgenza di malattie. A Roma si potevano trovare grani e carboni d’incenso che dopo essere stati a contatto con le spoglie di San Pietro e San Paolo acquistavano virtù miracolose, oppure gli ”Agnus Dei”, medaglioni di cera mescolata alle ossa dei martiri, che venivano distribuiti gratuitamente ai fedeli al fine di aiutare ad esempio il parto, scacciare fulmini, proteggere dal fuoco o dalla morte improvvisa. Se poi nessuno di tali rimedi si dimostrava efficace, il pellegrino che moriva prima di raggiungere Roma, aveva ugualmente il conforto di ottenere il perdono dei peccati promesso dal Giubileo.
Fonte : articolo di Federica Annibaldi da ” Luoghi dell’infinito” mensile di Avvenire