Fin dal Medio Evo il Carnevale di Venezia fu sontuosissimo e celebre per la magnificenza delle sue mascherate, che qui si svolgevano per la singolare natura di città sull’acqua, con cortei di gondole e di bissone ( barche da parata decorate). Al molo giungevano allegre brigate da ogni parte della laguna, da Chioggia, Pellestrina, Burano, Caorle, a bordo di bragozzi festosamente addobbati. Giovani artigiani napoletani, calabresi, siciliani, risalivano dalla Riva degli Schiavoni con barche luccicanti di ornati, e nei loro costumi regionali ricevevano gli applausi della folla entusiasta. Festose compagnie improvvisavano dialoghi buffi, farse d’occasione e brevi recite a soggetto, alternandole ai cori, ai trilli di mandolino e agli accordi di chitarra. La città si trasformava in un grandioso teatro, e tutti potevano trovare uno spazio in cui recitare liberamente la propria parte. La festa culminava nel giorno di giovedì grasso, che ricordava la vittoria ottenuta nel 1162 dal doge Vitale Michiel II su Ulrico, patriarca di Aquileia. Questi era stato fatto prigioniero e per riottenere la libertà, era stato costretto a promettere ai veneziani un tributo annuo di un toro, dodici maiali e dodici pani. Il giovedì grasso, dopo una serie di cerimonie e una parodia di processo,il toro e i porci, che simboleggiavano rispettivamente il primate di Aquileia e i dodici canonici del suo capitolo, venivano condannati a morte dal Magistrato del Popolo. il capo della corporazione dei macellai, aveva il privilegio di abbattere il toro, con uno spadone a due manici, che ancor oggi si conserva nel Civico Museo Correr. Il sacrificio aveva luogo nel cortile del Palazzo Ducale, alla presenza del Doge e delle autorità dello Stato. Un pezzo di carne veniva poi mandato in dono a ciascun senatore, mentre i pani venivano distribuiti a dodici carcerati. La Piazzetta San Marco veniva circondata di tribune per gli spettatori, tra cui prendevano posto il Doge e i più alti magistrati. In mezzo alla piazza veniva innalzata una torre di legno per i fuochi, detta ”Macchina”, fiancheggiata da due grandi palchi. I membri delle corporazioni dei fabbri e dei macellai, nelle loro pittoresche uniformi, davano inizio allo spettacolo con un corteo. Si trascinavano dietro tre buoi inghirlandati e giunti davanti al Doge si fermavano. Tre giovani forzuti si facevano avanti, e con un colpo netto di spadone, troncavano di netto la testa ai buoi tra la felicità degli spettatori. Allora dalla cella campanaria del campanile di San Marco, un funambolo, in costume di angelo o di guerriero o di turco o mascherato a suo piacere, scendeva lungo un cavo teso fino alla riva della piazzetta o ad una zattera ancorata nel bacino, gettando fiori sul Doge e sugli spettatori sottostanti e, dopo aver compiuto una serie di pericolose acrobazie, risaliva alla sommità del campanile. Dopo questa esibizione, detta ”Volo dell’Angelo”, su uno dei palchi che fiancheggiavano la ”Macchina”, si svolgeva, la ”Moresca”, una danza militare figurata, che dalla Spagna gli Arabi avevano diffuso in tutta Europa. Si trattava di un combattimento, eseguito da un gruppo di ”arsenalotti” con pose e colpi di spade corte e piatte. Sull’altro palco, giovani robusti delle rive opposte del Canal Grande, ”Nicolotti e Castellani”, eseguivano degli esercizi di forza, detti ”Le fatiche di Ercole” e salendo l’uno sull’altro, formavano un vero e proprio edificio vivente. Nel centro di Piazza San Marco veniva disposta la piattaforma per il ballo e ogni notte la folla vi accorreva numerosa, per danzare fino alle prime luci dell’alba. Alla mezzanotte del martedì grasso, dal campanile giungevano i rintocchi ammonitori della ”Marangona”, che annunciavano la fine del Carnevale. L’orchestra si arrestava, le coppie cessavano di ballare e tutti si toglievano la maschera. Era l’inizio della Quaresima. Durante il carnevale, la piazza e le zone circostanti erano tutto un pullulare di giochi e spettacoli di ogni genere. Da ogni parte, in quei giorni, venivano a Venezia compagnie di acrobati, saltimbanchi, venditori ambulanti, astrologi, cavadenti, musicanti. Ogni campanile sfoggiava la bandiera con il leone alato di San Marco, finestre e balconi esponevano drappi e lampioncini. I giovani si misuravano in gare di abilità, tra cui figurava il tiro al collo dell’oca, che finiva inevitabilmente con un bagno dei partecipanti nell’acqua gelida della laguna, come attesta un’interessante incisione, conservata al Civico Museo Correr, in cui si vedono giovani nudi e seminudi spiccare dei salti da un ponte, nel tentativo di afferrare il collo di un’oca appesa per i piedi a un filo teso fra due palazzi di rive opposte. Nella stessa incisione si notano in secondo piano altri giochi popolari molto in voga a quei tempi, come il palo della cuccagna, i combattimenti di cani e orsi. Ai divertimenti e all’allegria collettiva prendevano parte tutti, ricchi e poveri, cittadini e forestieri, mescolati e resi uguali dalla maschera. La città brulicava di una folla variopinta e chiassosa, assordante per le strida acute che lanciavano ”le gnaghe” ,uomini travestiti da donna, che ne imitavano voce e atteggiamenti. Siccome sotto la maschera potevano nascondersi personaggi molto importanti, a Venezia la maschera era inviolabile ed era tutelata da apposite leggi. Un travestimento caro ai veneziani era la ”bautta” che consisteva in una mantellina nera con cappuccio, che lasciava libero il volto, coperto a sua volta da una maschera bianca e nera mentre sul cappuccio si portava il tricorno. La ”bautta” era indossata da uomini e donne, aristocratici e plebei, ma fuori dal carnevale solo i nobili avevano il diritto di usarla. Comunque era la maschera più diffusa, come testimoniato da stampe innumerevoli sull’argomento giunte fino a noi. In un disegno acquerellato di Grevenbroch, conservato nel Museo Civico di Correr, si vede un mendicante, nell’atto di chiedere l’elemosina, vestito con l’elegante costume veneziano. Altra tipica maschera ” il dottore della peste”,caratterizzata da un naso smisurato e da abiti studiati apposta per evitare il contagio. Con questo abbigliamento, che lasciava scoperti gli occhi, i medici, servendosi di una lunga bacchetta, visitavano i clienti tenendosi a distanza; il lungo naso della maschera veniva riempito di garza e ovatta che fungevano così da filtro impedendo di contrarre il morbo attraverso le vie respiratorie. ” I mattacini”, in stravaganti buffi costumi, con berretti piumati o forniti di grandi orecchie da coniglio, si aggiravano tra la folla lanciando uova riempite di acqua aromatica. Anche molto diffuso ”il domino” abito di origine spagnola,costituito da una lunga cappa che arrivava fino ai piedi, e da un largo cappuccio, che occultava completamente l’identità di chi lo indossava. Non si contavano poi i Pulcinella, gli Arlecchino, i Brighella e tutti gli eroi resi popolari dalla Commedia dell’arte e dal teatro dei burattini. Il corteo delle maschere era capitanato da Pantalone, conosciuto all’inizio come ” Pantalon dei bisognosi”, tipica maschera locale, che pare derivi il proprio nome da ”Pianta Leone” per la ben nota cupidigia dei veneziani di andare per il Mediterraneo a piantare l’insegna con il Leone di San Marco, cioè a conquistare sempre nuove terre. Altri preferivano farlo derivare dal primo patrono di Venezia, San Pantaleone. Pantalone è il tipo del vecchio borghese, burbero e bonario, non avaro ma economo, sempliciotto e sempre preso in giro. E’ un uomo alto, dalla corporatura slanciata, naso adunco e barbetta aguzza che accresce l’espressione puntigliosa del volto. Nella storia del teatro, molti furono i grandi interpreti di questa maschera tra i quali ricordiamo il ferrarese Giacomo Braga, vissuto nel XVI secolo e il grande veneziano Cesare Darbes per il quale Carlo Goldoni scrisse il ” Tonin bona grazia”. Per il grande commediografo egli rappresenta la tradizione, la vecchia Venezia che piange sui tempi nuovi e corrotti, ricordando con nostalgia ai giovani , la passata grandezza e gli antichi sani costumi. Nel settecento furono molto di moda le cosiddette ”maschere ritratto”, importate da Parigi. Abili modellatori fabbricavano maschere che riproducevano le sembianze di una determinata persona e su questo volto veniva sovrapposta una seconda maschera. Con la complicità della penombra, c’era chi, per ingannare qualche donna e abusarne,si toglieva un attimo la maschera comune e destramente se la rimetteva, lasciando intravedere i falsi sembianti dell’amante o del marito di lei. La donna si lasciava abbindolare o fingeva di lasciarsi abbindolare. Le ”maschere ritratto” finirono comunque per produrre tali scandali che se ne proibì l’uso. Oggi il carnevale veneziano ha trovato di nuovo lo scenario più idoneo; le maschere sono tornate a riconoscersi nel tessuto e nell’aria più vera della città, la festa esplode incontenibile. Nel 1979 il carnevale è ufficialmente rinato grazie all’opera di un’associazione volontaria di cittadini, ”La Scuola Granda Di San Marco” costituitasi nel 1978 ed ora chi va a Venezia troverà anche alcune attività artigianali che sembravano estinte. Il piacere di muoversi in un’atmosfera ambigua e mimetica, in una città in cui il sogno può confondersi con la realtà è senz’altro un’esperienza indimenticabile, tutta da vivere.
fonte: ” Carnevale Veneziano” curato nei testi da Antonio Giubelli
http://www.vastospa.it/html/tradizione/trad_carn_it_commedia.htm
Se date un’occhiata a questo link troverete le foto delle maschere della commedia dell’arte, una più bella dell’altra.
Vorrei parlarti ancora, ora che non ci sei più. Ora che te ne sei andato in punta di piedi, passando dal tuo solito sonno a quello ultimo, per sempre. Ora ti vedo là, immobile, e mi fa impressione quel tuo corpicino, ormai smagrito . Non ce la facevi più, avevi perso le tue forze e ti fermavi sfinito anche solo per entrare nella lettiera. Con tutto ciò i tuoi occhi parlavano ancora, e parlavano d’amore per noi che ti abbiamo amato tanto per quasi diciassette anni. Quegli occhi che parlavano ancor prima dei tuoi miagolii. Sei stato per tutti questi anni la nostra compagnia e ci divertivi da morire quando correvi come un matto, nei tuoi momenti di euforia, scappando da ogni parte rifugiandoti nei posti più impensati. O quando entravi, tu gigante, in mezzo ai pastori del nostro presepe senza nemmeno farne cadere uno. Come potremo mai dimenticare il tuo musino che si sporgeva sulle scale, quando tornando a casa ci venivi incontro baldanzoso e felice . E quando tutte le volte che tornavamo dalle vacanze annusavi le valigie con fare sospetto per poi abbandonarti a tutte le effusioni possibili per dormire con Andrea, tuo fratello maggiore. E si perchè i lunghi viaggi in macchina non ti piacevano e dovevamo darci il cambio per non farti rimanere solo. Eri un coccolone anche con Chiara che da quando si è sposata vedevi un pò meno. Non sei stato un gatto petulante, mai un fastidio , mai dal veterinario anche se al volo ti guardava a volte mio fratello, ricordi, un veterinario sempre poco accettato da te. Solo nel tuo ultimo periodo di vita un pò tribolato ne hai avuto più bisogno. Ti abbiamo voluto tanto bene caro Tachi, eri il nostro amico del cuore, non ti scorderemo mai.