Cari siori, per non far torto a nissun, ecco qua una golosità tipica veronese delicata, soffice che mi vede sua estimatrice convinta : sua maestà il PANDORO.
Non potevo perciò non parlarne, viste anche le mie origini venete ( pur essendo nata a Roma) e visto che tanti lo preferiscono al panettone. Quindi per giustizia ecco qua qualche notizia a riguardo.
Questo dolce regale ha una storia legata ad aneddoti e leggende, ma l’attuale versione del pandoro risale in verità all’ottocento come evoluzione del ”nadalin’‘ il duecentesco dolce della città di Verona creato per festeggiare il primo Natale della città sotto la signoria della Famiglia della Scala. Rispetto al pandoro vero e proprio, è meno burroso e fragrante, ma più compatto e dolce. Esso è più basso, ma non ha una forma precisa. Molti veronesi sono a lui legati considerandolo come il dolce più legato alle origini e tradizioni della città. Per quanto riguarda invece il nome di ”Pandoro” e alcune delle sue peculiarità, queste risalirebbero ai tempi della Repubblica Veneziana ( prospera nel Rinascimento fino all’esibizionismo, grazie al commercio con l’Oriente), dove sembra tra l’offerta di cibi ricoperti con sottili foglie d’oro zecchino, ci fosse anche un dolce a forma conica chiamato ”Pan de oro”.
Un’altra storia assegna la maternità del pandoro alla famosa brioche francese, che per secoli ha rappresentato il dessert della Corte dei Dogi.
In ogni caso c’è una data che sancisce ufficialmente la nascita del pandoro,ed è il 14 ottobre del 1884, giorno in cui Domenico Melegatti depositò all’ufficio brevetti, un dolce dall’impasto morbido e dal caratteristico stampo di cottura con forma di stella troncoconica a otto punte, opera dell’artista Dall’Oca Bianca, pittore impressionista.
Ed ora correte tutti a mangiare ciò che è rimasto di questi dolci natalizi, e mi raccomando non dimenticate di aggiungere al presepe i Re Magi. Sono lungo la strada seguendo la stella cometa per arrivare e adorare il ”piccolo” ( ma Grande ) appena nato.
fonte: Sale e Pepe. Wikipendia
Dedicato all’amico Giancarlo ( blog Vivere per Amare)
Volendo parlare di te come non rimanere prigionieri di un incantesimo? Come si fa infatti a non amarti, tu città unica dalle mille contraddizioni. Da una parte le bellezze di cui puoi vantarti, ricche di storia, il Palazzo Reale, Piazza del Plebiscito, la Galleria Umberto, oggi tragicamente nota per la morte di quel ragazzo quattordicenne , che si è trovato nel momento sbagliato, sotto quel crollo improvviso di cornicione. Dall’altra quei tuoi vicoli , dove la delinquenza è all’ordine del giorno, scippi , droga, omicidi. Problemi che si trascinano da anni, senza mai trovare soluzioni. Ma al di sopra di tutto , rimani sempre tu Napoli , dove il turista può respirare l’aria frizzante del mare camminando lungo la bella via Caracciolo e ammirare in lontananza il Vesuvio che sembra osservarti attento. O girare al Vomero tra negozi eleganti o ancora passeggiando all’interno della bella Villa Floridiana . E i napoletani poi, genuini e schietti. Servirebbero parole infinite per parlare della tua storia, i borboni, l’arte napoletana, il teatro unico di Eduardo, di Titina e Peppino De Filippo tutti figli del grande Scarpetta, il grande Totò irresistibile nelle sue interpretazioni proprio in coppia con Peppino . E ancora la musica, la magia di canzoni, difficili da dimenticare: ”Munasterio ‘e Santa Chiara”, cantata anche da Mina, ”Marechiaro” di Salvatore di Giacomo e musicata da Tosti. ‘‘Core’ngrato” cantata dal grande Caruso, ”I’ te vurria vasà” cantata dal grande Roberto Murolo. E ” lu cafè ?” Quell’odore unico che si sprigiona improvviso nell’aria mentre cammini, il profumo d’arancia della pastiera napoletana. E la lista potrebbe ancora proseguire, lunga e interminabile. Nel 1987 mio marito iniziò a lavorare a Napoli per seguire un progetto IBM tendente ad informatizzare gli scavi di Pompei, il progetto Neapolis. Vi si fermò tre anni circa abitando a Posillipo, la zona collinare di Napoli, bellissima, con un panorama mozzafiato. Nell’estate del 1988 noi tre lo raggiungemmo per due settimane. In quei giorni portai i miei figli, all’epoca di sei e dieci anni, in giro per tutta Napoli spingendoci anche fino a Sorrento con la circumvesuviana. Bè ne hanno ancora oggi un ricordo indelebile. Uscivamo la mattina prendendo l’autobus che fermava proprio sotto casa e scendevamo in città. ” Turisti per caso” andavamo di qua e di là sotto un bel sole cocente, divertendoci un mondo. Poi stanchi , nel pomeriggio tornavamo. Un periodo d’oro. Ma in realtà molti altri turisti ben più importanti di noi, ti hanno visitata, Napoli. E allora lasciamo ad essi la parola.
”La baia più bella che io abbia mai visto. Forma quasi un cerchio di trenta miglia di diametro, racchiusa per tre quarti in una nobile cornice di boschi e montagne”.
Così apparivi agli occhi dell’inglese Joseph Addison ( 1672 – 1719) e così parla di te Mark Twain quando vi arriva nel 1868 :
”Vedere Napoli come noi la vedemmo nella prima alba, dal Vesuvio, significa vedere un quadro di una straordinaria bellezza…E quando la luce da lattea si fece rosea, e la città divampò, sotto il primo bacio del sole, il quadro divenne bello al di là di ogni descrizione. era proprio il caso di dire: ”Vedi Napoli e poi muori! ”
Nel suo ”Viaggio in Italia” ( Italienische Reise ) dove Goethe visita le città italiane in un viaggio che sarà anche viaggio dell’anima, egli fece un paragone tra Roma e Napoli dicendo di te :
”In questo paese non è assolutamente possibile ripensare a Roma; di fronte alla posizione tutta aperta di Napoli, la capitale del mondo nella valle del Tevere, fa l’impressione di un vecchio monastero mal situato.”
Tra i francesi che ti ammirarono non possiamo dimenticare Alexandre Dumas padre (1802- 1870), il più napoletano degli scrittori al mondo, che a Napoli segue il suo amico Garibaldi e fonda persino un giornale patriottico, ”L’Indipendente” :
”A Napoli la sorte di un innamorato è decisa subito. A prima vista è simpatico o antipatico. Se è antipatico, nè premure nè regali nè perseveranza lo faranno amare. Se è simpatico, lo si ama senza dilazioni : la vita è breve, il tempo perduto non si guadagna più…”.
Tra gli Italiani un grandissimo come Leopardi, morto proprio a Napoli nel 1837 così diceva nel 1833 :
” Giunsi qui felicemente… La dolcezza del clima, la bellezza della città, e l’indole amabile e benevola degli abitanti, mi riescono assai piacevoli…”.
Per mutare però parere un anno dopo :
”Non posso più sopportare questo paese semibarbaro e semiafricano nel quale io vivo in un perfettissimo isolamento da tutti…”
Infine ascoltiamo le parole di Salvatore Di Giacomo ( 1860 – 1934) che nel suo celebre ”Pianefforte ‘e notte” riassume l’incanto musicale della città partenopea:
”Nu pianefforte ‘ e notte / sona luntanamente, / e ‘ a museca se sente / pe ll’ aria suspirà. / E’ ll’una : dorme ‘ o vico / ncopp’a sta nonna nonna / ‘e nu mutivo antico / e’ tanto tiempo fa. / Dio, quanta stelle ncielo ! / Che luna ! E c’aria doce / Quanto na bella voce / vurria sentì cantà! / Ma sulitario e lento / more ‘ o mutivo antico;/ se fa cchiù cupo ‘ o vico/ dint’a ll’oscurità. / Ll’anema mia surtanto/ rummane a sta fenesta. / Aspetta ancora. E resta, / ncantannose, a penzà”/
E ora ”dulcis in fundo” vi lascio questo link. Un bacio a tutti Isabella
fonte : ”Le splendide città d’Italia” Selezione dal Reader’s Digest
Ludwig van Beethoven amava molto passeggiare e quindi usciva ogni giorno di casa, con qualsiasi tempo. Se il cielo era clemente si avviava in campagna, se pioveva restava in città. Camminava lentamente per le vie di Vienna, si soffermava davanti ai negozi, talvolta ne varcava la soglia per un acquisto. Entrava sovente anche in qualche caffè o addirittura nelle osterie. In mezzo alla gente comune era allegro e disteso, assai più di quanto non lo fosse nei salotti dell’aristocrazia, dove spesso si sentiva a disagio. Talvolta non disdegnava pranzare in trattoria con gli amici. Anzi ne era molto contento. Erano le ore in cui si distendeva, si abbandonava all’estro del momento, meravigliava i presenti con battute di spirito, con commenti caustici e pieni di umorismo. A volte diventava talmente allegro tanto da stupire gli amici abituati a vederlo accigliato. Come tutti i viennesi, amava passeggiare al Prater, il vastissimo parco alle porte di Vienna che, un tempo proprietà della famiglia imperiale, era stato aperto al pubblico dall’imperatore Giuseppe II. Il Prater aveva magnifici viali dove, al trotto, andavano e venivano carrozze, nelle quali intere famiglie si godevano il piacere di una corsa ad andatura dignitosamente moderata. Qua e là, dove gli alberi formavano una specie di anfiteatro, suonavano orchestre che alternavano pezzi d’opera a musica sinfonica, e a marce militari. Sotto agli alti castagni erano sistemati piccoli accoglienti caffè frequentati da un pubblico vivacissimo che dava l’impressione che fosse sempre domenica. Con il suo taccuino in mano, il grande Ludwig passeggiava senza una meta precisa, sognando ad occhi aperti ( cosa che gli capitava spesso), mescolato tra la folla, tra bambini che gli correvano incontro per offrirgli fiori. Abbastanza spesso Beethoven lasciava il Prater per ritrovare i suoi amici all’Albergo del Cigno Bianco, al ”Cammello nero”, alla ”Città di Trieste”, caratteristici locali alla moda dove, tra il fumo del tabacco e l’acre odore dell’alcool, fervevano discussioni che toccavano i più disparati temi connessi all’arte e alla vita del pensiero. Beethoven entrava; si sedeva ad un tavolo, ordinava un bicchiere di birra e ad occhi chiusi fumava una grossa pipa. Se qualche amico lo toccava su di una spalla, si risvegliava come da un sogno aprendo gli occhi , estraeva il suo ”quaderno di conversazione’ e ordinava a gran voce all’interlocutore di scrivergli ciò che voleva chiedergli. In alcune locande i musicisti si riunivano per presentare anche le loro composizioni . Capitò così che alla ”Zum wilden Mann” Beethoven facesse eseguire i suoi stupendi quartetti dal famoso complesso Shuppanzigh. Frequentando le allegre compagnie, Ludwig imparò a gustare lo champagne, anche se ricordando il padre semi-alcolizzato cercava di astenersene il più possibile, scrivendo all’amico Kuhlau che” queste cose soffocano, anzichè eccitare il mio fervore creativo”. Gli piaceva conversare di politica ( dopo la Rivoluzione francese era convinto che ben presto in Europa ci sarebbero state tutte Repubbliche), era colto, leggeva molto. Naturalmente frequentava anche i negozi di musica, famosi a Vienna, dove ogni settimana poteva incontrare gente del suo mondo, maestri, editori e dilettanti di musica. Bel mondo no, che ve ne pare? Nel prossimo post dedicato a questo grande musicista, racconterò qualcosa della sua sordità.
Il Caffè D’Argento in Spiegelgasse, litografia di Katzler
La Locanda del Cigno Bianco al mercato nuovo
Antonio capisci ora perchè mi sarebbe piaciuto vivere al tempo di Beethoven a Vienna? Mi pare si respirasse aria di cultura e fosse una città altamente vivibile… meglio senz’altro delle città di oggi convulse e piene di traffico.
fonte: I Grandi di tutti i tempi — Beethoven
Periodici Mondadori
Comincio qui un viaggio tra alcune delle nostre più belle città italiane, attraverso la voce non solo mia ma soprattutto quella ben più importante di personaggi famosi che le hanno visitate spesso in tempi anche lontani, o che vi hanno vissuto o addirittura vi sono nati. Talvolta potrò parlare anche di piatti tipici, sperando sempre di riuscire a stimolare il vostro interesse. Iniziamo dunque il viaggio partendo da Bolzano che ho visitato anni fa da ragazzina una prima volta, per tornarvi più tardi con mio marito e i miei figli piccoli e che mi piace molto. Una città nata nel 1100 attorno ad un mercato che si teneva in quel triangolo di terra che si protende tra il torrente Talvera e il fiume Isarco. Qui è il centro, di questo luogo ameno, da cui partono le vecchie strade, i vicoli, gli archi e gli sporti ( cornicioni, mensole) così cari all’architettura nordica. Io la ricordo a distanza di anni, ancora per via dei Portici, che ci riporta all’origine mercantile di Bolzano, che attirò fin dal Medioevo per la posizione geografica, i commercianti di ogni paese. In questa strada sfilavano dirette al Brennero le carovane delle Repubbliche marinare, con i loro carichi profumati e multicolori di spezie e di broccati. Ma la ricordo anche per tutto il verde spettacolare che la circonda e che mi è rimasto nel cuore, per quello scenario unico delle Dolomiti, che fanno in lontananza quasi da contrappunto alle guglie del suo Duomo. Distesa nella verde conca dove scorrono i già nominati Talvera e Isarco, Bolzano ha saputo difendere e valorizzare quel patrimonio naturale che la circonda, salvaguardando i boschi e i vasti pascoli, aggredendo i fianchi delle montagne non con il cemento ma con le viti oggi come al tempo di Carlo Magno, quando il ”Bozanarium” era uno dei vini più famosi d’Europa. E proprio da qui, nel maggio del 1953, comincia il viaggio che lo porterà in giro per l’Italia, di Guido Piovene. ”Parto dall’estremo nord, con l’intento di scendere fino a Pantelleria regione per regione, provincia per provincia. Sono curioso dell’Italia, degli italiani, di me stesso… Bolzano è città di fondo tedesco. Si sente in essa, e nei dintorni, la vita di un popolo comodo, sordo, chiuso, cocciuto, sentimentale, pochissimo passionale, orgiastico ad ore fisse…Bolzano è opulenta, moderna. Ma la sua bellezza è gotica: le lunghe vie fiancheggiate di portici, abbellite non tanto da questa o quella costruzione, quanto dal movimento degli spigoli e delle sporgenze, che crea fondali di teatro, giochi di luce…” Sempre da Bolzano, nell’ottobre del 1580, comincia l’avventura italiana di Michel de Montaigne : ”Arrivammo di buonora a Bolzano, città della grandezza di Libourne,non bella come le città tedesche, tanto che esclamai ” Si vede che cominciamo a lasciare la Germania”: infatti le strade erano più strette e non c’erano le belle piazze pubbliche. Ma c’erano ancora fontane, ruscelli, pitture e vetrate…C’è in città una così grande quantità di vini che ne forniscono tutta la Germania…Ho visto la chiesa che è delle belle”. L’11 settembre del 1786 arriva a visitare la città anche Goethe ”con un gran bel sole. Qui le facce dei mercanti mi hanno comunicato una certa allegria. La vita agiata e attiva si rivela con grande vivacità”. Tra molti personaggi illustri che furono importanti per Bolzano ci fu un poeta di lingua tedesca Von Der Vogelweide Walther (1170 ca.- 1230 ca.). Nato da nobile famiglia in un castello del Tirolo, visse alla corte di Filippo di Svevia, a Vienna, quindi al servizio di Ottone di Brunswick. Considerato il massimo rappresentante della scuola poetica del Minnesang ( canto d’amore), raggiunse la maggiore altezza nella poesia amorosa, conferendole più vigore rispetto alla stilizzazione manierata dei contemporanei. Bolzano, consacrandolo massimo poeta della letteratura tirolese, gli ha dedicato un monumento nella sua piazza centrale. Di stile romanico, fu scolpito in marmo bianco di Lasa, dallo scultore venostano Heinrich Natter ( 1889). Nel 1935 le autorità comunali fasciste ne disposero il trasferimento in un luogo più appartato della città ( Parco Rosegger- via Marconi ). Il monumento fu poi ricollocato nella piazza nel 1985. Parlando di cucina molto saporiti sono i piatti che nascono dal sapiente incontro tra cucina tirolese austriaca e cucina trentina. Buone le minestre, le zuppe di trippa acida o di crauti. Il camoscio alla tirolese, marinato in un vaso di terracotta con vino, aceto, erbe diverse, spezie, limone e poi cotto con vino, panna acida, alloro. Tra i dolci non manca di certo lo strudel, le frittelle di mele, i krapfen. E non dimentichiamo i vini , rossi, il Caldaro, il Santa Maddalena. Tra i bianchi Terlano Terlaner e il Sylvaner.
Ed ora potete guardarvi questo link dove troverete altre notizie su Bolzano tra le quali anche una bella passeggiata dedicata ad un santo il cui nome ricorda un nostro amico comune e cioè : OSVALDO
http://www.bolzano-bozen.it/it/da-vivere/passeggiate.html
Dedicato alla mia amica Loredana
fonte: ” Le splendide città d’Italia” Guida ai centri più importanti del nostro Paese Selezione dal Reader’s Digest
”I secoli futuri potranno credere, quando le messi rispunteranno, che popolazioni e città inghiottite giacciono sotto i loro piedi…scomparse in un mare di fuoco?”
PUBLIO PAPINIO STAZIO, poeta latino del I sec. d. C.
”Cadeva della cenere ma non fitta. Mi volsi. Una densa caligine ci sovrastava e, simile a un torrente ci incalzava. Udivo i gemiti delle donne, i gridi dei fanciulli, il clamore degli uomini.”
PLINIO il GIOVANE, scrittore latino del I secolo
Quando si arriva a Napoli, la cosa che colpisce di più lo sguardo, è senza dubbio il Vesuvio. Imponente, silenzioso dal 1944, appare dominatore su di una città che per forza deve con lui convivere. Alto 1282 metri , dal 79 d. C. ad oggi si è risvegliato dal suo sonno ottanta volte, in particolare nel 1631 e nel 1906. Tutta la zona a lui sottostante, è ad alto rischio, per essere il Vesuvio un vulcano ancora attivo e continuamente monitorato. E tutti sanno che l’eruzione in cui sparirono coperte da nubi ardenti e fango, Ercolano e Pompei, fu quella del 79 d. C. In realtà una ricerca dell’Osservatorio Vesuviano- Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia testimonia che un evento ben più grave avvenne nell’antica età del bronzo nel 3780 a. C. , ben 4000 anni prima di Pompei. L’eruzione ebbe effetti devastanti in un’area che si estende fino a 15 chilometri dal vulcano e in tutti i siti considerati sono rimaste le testimonianze di una drammatica fuga: stoviglie abbandonate a terra nelle capanne, e impronte di uomini e animali in fuga. Gli unici resti sono quelli di un uomo e una donna, sepolti dalla cenere in una zona che si trova a circa 17 chilometri dal vulcano. Molti altri morirono per soffocamento. In quella zona vivevano all’epoca dalle 10000 alle 20000 persone, di cui la maggior parte riuscì ad allontanarsi dal vulcano fermo restando che ne morirono sicuramente migliaia. Quando i sopravvissuti tornarono ai villaggi, provarono a ricostruirli, come testimoniano i resti dei pali delle capanne trovati dagli studiosi. Ma i campi sommersi dalla cenere, erano impossibili da coltivare. Di colpo l’intera struttura sociale e agricola dei villaggi venne cancellata e l’intera zona rimase disabitata. ( dal sito : Pompei sepolta) Ora osserviamo un pò la cartina della Campania. La zona intorno al Vesuvio comprende guardando alla sinistra di Napoli, i Campi Flegrei con Bagnoli e Pozzuoli. Essi non sono altro che una parte di un’antica ”caldera” vulcanica del diametro di circa 12 chilometri che eruttò circa 36000 anni fa. Un tempo era la bocca di un cratere e mandava fumi sulfurei. Il poeta Virgilio (I sec. a. C.) ne fece la porta d’ingresso per gl’Inferi e lo stesso Totò vi girò una parte del suo film ” 47 morto che parla”. Poi c’è Napoli, fondata dai Greci circa 26 secoli fa, sopra un letto di ceneri e lave vulcaniche, con il suo spettacolare golfo, su cui si affacciava Ercolano, costruita anch’essa su depositi vulcanici preistorici, ridente cittadina in cui amavano villeggiare i patrizi romani, in ville che guardavano direttamente il mare. Sempre sul golfo si affacciano poi Castellammare di Stabia, Torre Annunziata e le belle Sorrento, Vico Equense e Massa Lubrense. Pompei più all’interno, proprio sotto il Vesuvio, fu fondata probabilmente dagli Osci prima del 430 a. C. ma furono poi i Greci e gli Etruschi a farla grande. Dal 424 al 91 a. C. fu una città sannita per poi cadere sotto l’influenza di Roma. Dunque da una parte Ercolano, con le sue ville, dove la vita dei patrizi romani in villeggiatura scorreva tranquilla, e dall’altra Pompei dove la vita , più laboriosa, si svolgeva tra le botteghe degli artigiani, e dove le case avevano tutte più o meno il proprio ”orto” , vigneto, frutteto in aggiunta al grande giardino. L’amore per il verde portava così ad affrescare pareti e muri divisori con motivi floreali di raffinata bellezza, mentre negli orti si coltivavano anche le ciliegie molto ”in” all’epoca, (un pò il kiwi di oggi ) tanto che chi aveva un ciliegio poteva dirsi molto fortunato. Insomma questo era pressappoco lo scenario di quella lontana mattina del 24 agosto del 79 d. C. Era all’incirca l’una del pomeriggio quando il Vesuvio, il vulcano, si risvegliò improvviso con un tremendo fragore. Durante le 11 ore successive una colonna di fumo, di polveri e lapilli si alzò fino a 20 chilometri d’altezza, oscurando tutto il cielo. Il vento soffiava verso sud-est, e su Pompei caddero pomici, ceneri e frammenti di lava, il cui spessore era dell’ordine di 15 cm/ora. A mezzanotte ceneri e gas lanciati fino alla stratosfera ricaddero sui fianchi del vulcano, formando le ” nubi ardenti”: valanghe impalpabili e letali che corrono alla velocità di trecento chilometri all’ora e arrivano a centinaia di gradi. La prima investì Ercolano, e uccise tutti i suoi abitanti. Alle cinque del 25 agosto cominciò a piovere. Poco dopo le 6 una nuova nube ardente soffocò Pompei. Intanto la pioggia aveva messo in moto un vero e proprio fiume di fango bollente che seppellì l’intera Ercolano. Due città che dopo la distruzione totale scoprirono una nuova vita grazie a scavi archeologici che riportarono alla luce resti di un mondo estremamente ricco ed affascinante. Centocinquanta anni fa Giuseppe Fiorelli (1823-1896) all’epoca direttore proprio degli scavi, colando gesso liquido nelle cavità lasciate dai corpi decomposti all’interno della cinerite indurita, realizzò l’esperimento più clamoroso legato a Pompei. I calchi davano addirittura l’impressione di trovarsi di fronte agli ultimi abitanti, con lo spessore dei loro corpi, nel momento in cui cessavano di vivere. Erano vere e proprie fotografie, che fissavano bocche spalancate, mantelli sulla testa, volti chiusi nelle mani: mamme, bambini, giovani, anziani, animali, sopravvissuti alle prime fasi dell’eruzione e uccisi, dalle masse di vapori calde e letali che si abbatterono sulle città. Subito turisti incuriositi cominciarono ad arrivare per conoscere e vedere da vicino le rovine riportate alla luce. Lord William Hamilton, colto ambasciatore inglese, e sua moglie Emma aprirono la loro residenza napoletana, che divenne il punto di ritrovo di intellettuali anglosassoni, per dar loro la possibilità di assistere ai ” tableau vivant” di Emma ispirati a scene che rivelavano gli scavi, su rilievi, vasellame, affreschi. Winckelmann incontrò invece nel 1765 in Italia il principe Leopoldo III di Analth- Dessau arrivato in compagnia dell’architetto Friedrich Wilhelm von Erdmannsdorff, progettista di giardini, e fece da guida ai due connazionali nel golfo di Napoli. Tutti quei resti fecero una tale impressione sul principe che tornato in patria, fece realizzare un parco culturale a Worlitz, vicino Berlino, che dal 2000 è stato inserito dall’UNESCO nella lista del Patrimonio dell’Umanità. Immersi nel verde, su un ramo del fiume Elba, s’incontrano un lago artificiale sormontato da un piccolo Vesuvio, alcuni cunicoli che evocano le prime scoperte di Ercolano e finiscono in ambienti ricreati come in origine e le rovine di un teatro romano vicino alla ricostruzione della Villa Hamilton a Posillipo. Si può persino assistere ad un’eruzione simulata del vulcano, con luci e fiamme. L’intento del principe era di offrire a tutti i sudditi una passeggiata nel Gartenreich ed entrare così nella casa principesca per un insolito Grand Tour Italico.
fonte: da un articolo ”Memoria per il futuro” di Airone 100, e stralci di un articolo di Maria Ranieri Panetta su ”Il mito di Pompei” tratto da Archeo : Tra Mito e storia- Pompei
Le foto qui sotto riprese dallo stesso articolo su Airone 100 sono : la prima, il vigneto ripristinato in orto di via Nocera a Pompei. La seconda, uno scheletro ben assemblato . La terza, i calchi in gesso di due cadaveri scoperti nell’orto dei fuggiaschi a Pompei.
L’anno scorso, il giorno della Befana ( per tradizione il mio giorno ), siamo andati a festeggiare a Matera. Non c’eravamo mai stati e per tutti è stata una bellissima sorpresa . Capitati in un periodo decisamente non felice per freddo e umidità, ci siamo trovati immersi in una città magica complice anche l’atmosfera natalizia. Un luogo che sembra sospeso nell’aria, quasi irreale e noi lì in mezzo a passeggiare. Un viaggio tra la realtà lucana, tra magia e superstizione, tra sacro e profano. Mio figlio ha scattato foto stupende di cui voglio farvi partecipi, soprattutto dedicate, come promesso , all’ amico poeta grottolese Carmelo Caldone. Prima però voglio dedicare a questa città unica e straordinaria, dei ricordi di autori che l’hanno visitata in tempi lontani e nello stesso tempo riportare una piccola descrizione di Vito Mastrogiovanni giornalista, scrittore e commediografo nato a Bari il 27 dicembre 1924 e morto sempre a Bari il 4 marzo del 2009.
”Matera , drammatico gioco di rocce e architetture”
……
I Sassi appaiono come le rovine di Pompei: per le stradine non passa anima viva, nei cortili non echeggiano le grida e i canti dei bimbi, anche le chiese sono abbandonate. Davanti alle grotte cresce ormai l’erba e dai camini non si alza più il fumo del frugale pasto serale ; molte porte sono state murate per evitare il ritorno nelle antiche case. E in questo deserto si possono cogliere odori e colori ricorrenti nel paesaggio materano: per le viuzze, c’è odore di mentuccia, di rosmarino e di origano che crescono spontanee tra pietre e zolle umide. Su tutto domina il colore grigio scuro della gravina, la grande voragine che protegge le tane, e i cui toni danteschi vengono interrotti, nelle alti pareti a strapiombo, dal verde dolce dei cespugli e degli alberelli che spuntano improvvisi, dalle spaccature del calcare. Quando il sole splende, il tufo assume una tenue patina dorata , e il silenzio solare è ravvivato dalla freschezza di qualche pino secolare e dai fichi e dagli aranci che ancora crescono nei solitari giardini pensili, rubati all’arida pietra. Negli incipienti autunni invece, le nebbie calanti dalle alture rivestono il paesaggio di un’impalpabile coltre e trasformano le case, per sempre abbandonate, in elementi scenografici di un presepe grandioso.” da ” Le splendide città d’Italia” ( Selezione dal Reader’s Digest ).
” Matera , così a me cara, sebbene aspra e povera!”.
Sono parole di Giovanni Pascoli che dalla città lucana comincia il suo lungo pellegrinaggio di insegnante. Per lui, Matera restò sempre ”la città del mio primo pane”, la città dei ”cari trogloditi” come chiamava affettuosamente i suoi allievi.
E questa è la descrizione che ne fa nel suo libro ” Cristo si è fermato ad Eboli” Carlo Levi.
”…quando uscii dalla stazione… e mi guardai intorno, cercai invano con gli occhi la città. La città non c’era. Ero su una specie di altopiano deserto… In questo deserto sorgevano, sparsi quà e là, otto o dieci grandi palazzi di marmo… Mi misi finalmente a cercare la città …arrivai ad una strada che da un solo lato era fiancheggiata da vecchie case, e dall’altro costeggiava un precipizio. In quel precipizio è Matera. La forma di quel burrone era strana; come quella di due mezzi imbuti affiancati, separati da un piccolo sperone e riuniti in basso in un apice comune…Questi coni rovesciati, questi imbuti, si chiamano Sassi. Hanno la forma con cui, a scuola, immaginavamo l’Inferno di Dante…”.
E adesso via con le foto di mio figlio Andrea.
”Bevete solo i vini migliori. Bevete vini forti. Evitate
nel modo più assoluto le acquette e gli svaporati.
Evitate la feccia.”
”Trattato sul buon uso del vino” di Francois Rabelais (1494- 1553)”.
Ambros Bierce (1842-1914) scrittore, giornalista statunitense, parlava dell’astemio definendolo un” debole che cede alla tentazione di negarsi un piacere.” E un vecchio detto dice ”Giornata senza vino , giornata senza sole”. Tutto ciò per introdurre l’argomento che dall’ultimo post avevo promesso di trattare : il vino, ma quello francese. Eravamo rimasti in Provenza, per la precisione nel Vaucluse e proprio qui dalle rive del Rodano ai pendii del Luberon la lunga storia del vino si esprime attraverso i vari linguaggi del gusto e del colore. E la si scopre magicamente immergendosi in itinerari dove la vita genuina dei vignaioli rapisce e contagia. E il vino in queste zone è prima di tutto storia e poi piacere. Per capire allora l’importanza che assume questa bevanda in terra francese cominciamo con un pò di storia.
La valle del Rodano nata vari secoli fa dallo scontro tra il Massiccio centrale e le Alpi, è attraversata dal fiume omonimo che nasce nelle Alpi svizzere e sfocia nel Mediterraneo in terra francese nei pressi di Marsiglia. La regione si divide in due parti la valle settentrionale e quella meridionale. Nel nord già nel I sec. a. C il vigneto faceva concorrenza a quelli italiani. E’ di questo periodo la costruzione della città gallo-romana di Molard, la più importante cantina di vinificazione romana, fino ad oggi identificata nei pressi del Rodano a Donzère. In questo periodo si sviluppano anche le botteghe di anfore destinate al trasporto del vino e alle salse di pesce. Le scoperte archeologiche di terreni adatti alla coltivazione di vigneti, accompagnate a studi storici, provano che il vigneto ” rodaniano ” è di gran lunga anteriore ad altri e che i Romani nelle loro risalite lungo il fiume, furono capaci di dare ad esso impulso commerciale. La valle settentrionale produce vini più rossi che bianchi con una differenza basilare rispetto a quella meridionale, e cioè l’utilizzo di un solo tipo d’ uva . Nel sud prevale invece l’assemblaggio di più uve come nel caso di Chateauneuf- du-Pape dove addirittura possono essere utilizzate ben tredici tipi di uve diverse, sia rosse che bianche. Delle due aree la più celebre è quella settentrionale poichè qui si trovano due delle più grandi denominazioni dell’intera regione : Cote- Rotie e Hermitage. Proprio i vini di tale denominazione hanno consentito una maggiore riconoscibilità ai vini della valle del Rodano così da competere con quelli più blasonati della Borgogna e del Bordeaux. Quando nel medioevo i papi s’installarono ad Avignone apprezzando molto il buon vino e la zona, incoraggiarono la piantagione dei vigneti ed ecco quindi lo sviluppo sempre più ricco di questa bevanda fino ai giorni nostri . Lungo la valle ” le strade dei vini” sono indicate attraverso cartelli segnaletici : itinerario azzurro, indaco, seppia, malva, turchese e per ogni circuito sono proposte cantine qualificate da una a tre foglie di vite secondo la qualità dell’accoglienza e il livello di prestazioni offerte. Quest’anno con i nostri amici ci siamo recati in una di queste cantine, ubicata al centro di un’ area coltivata , dove un simpatico vignaiolo con barba e cappello in calzoni corti, ci ha accolto e accompagnati all’interno per offrirci dell’ottimo vino da degustazione. Sotto gli alberi della fattoria, in un grande capannone un altrettanto grande trattore per lavorare la vigna ed altri grossi utensili. La voglia di rimanere lì, lontano da tutto e tutti per rimanere immersi in una vita totalmente diversa da quella alla quale siamo abituati, dirò che era tanta. Anche perchè il vignaiolo sopra la cantina aveva la sua abitazione, pensate un pò che bellezza, lavoro e riposo insieme, una manna. Comunque per tornare al vino, beviamolo sì ma con moderazione, anche poco ma buono.
fonti varie , e alla corte di bacco.com
Che bello viaggiare. Trovo che il viaggio sia una delle cose che gratifichi di più l’essere umano. Ce ne sono in realtà ben più importanti, ma il viaggio è uno stato d’animo che c’è o non c’è. E’ un sentirsi liberi di conoscere il mondo, di andare e raggiungere luoghi sconosciuti, osservare la gente fare cose di cui tu non sei a conoscenza, scoprire nuove culture. E’ ascoltare e spesso non capire altre lingue, visitare città dal fascino antico, apprezzare lo stare immersi nella natura in silenzio. Il creato è così variegato che ognuno può trovarvi risposte alla propria voglia di curiosità. Ho viaggiato soprattutto in Francia avendo un punto di appoggio da cui poter partire, e ciò mi ha dato l’opportunità di visitare e amare città e paesi indimenticabili. Il sud offre molto sia per il clima mite, a volte direi anche piuttosto caldo, e per l’atmosfera rilassante e ospitale tutta da provare. L’aria di provincia che si respira in queste zone, le soste nei bar dove gustare il ”pastis” e gradevoli aperitivi, all’ombra di immensi platani in piazzette dove assistere a partite di bocce, è avere l’opportunità di ritrovare un gusto naturale di vita, fatto di cose semplici e piacevoli. Direi che comunque, andrebbero viste quasi tutte le zone disponibili, perchè in ognuna troverete qualcosa che non potrà non conquistarvi . Carcassonne, città fortezza unica nel suo genere, Albi, città degli eretici con la basilica di Santa Cecilia in mattoni rossi alta fino quasi a toccare il cielo,una cosa mai vista e città natale del pittore Toulouse Lautrec. E la Camargue, con i tori al pascolo che guardano in lontananza con fare un pò superbo, il fotografo di turno che li vuole immortalare. Ma l’anno scorso ho lasciato il sud per dirigermi, su consiglio di mio figlio, altro amante del viaggio,in Bretagna e Normandia. Itinerario da lui consigliato e studiato nei minimi dettagli, orari compresi di arrivo per le varie tappe. Un viaggio con mio marito ”on the road”, rigorosamente in macchina, seguendo la via dei pellegrini per Santiago di Compostela, arrivando al santuario spettacolare di Rocamadour, puntando su Orlèans e arrivando a Saint Malò città marinara per eccellenza della Bretagna. Incantevole. E poi quel Mont Saint Michel, impossibile parlarne, solo da vedere. Ho tenuto un diario di quel viaggio, giorno per giorno abbandonandomi alle sensazioni che provavo incontrando paesi e città ricche di storia come Caen, Rouen, senza dimenticare l’emozione di quelle spiagge normanne in cui sono morti tanti giovani nel famoso sbarco della seconda guerra mondiale. Ho assaporato cibi particolari, come la famosa ”galette bretonne” , una specie di piadina da farcire come si vuole, con farina di grano saraceno,e le ostriche ottime di Bayeux. Ho percorso chilometri su strade solitarie, capitando in trattorie ,abituali soste per camionisti, costeggiando campi immensi di grano . Un viaggio unico, indimenticabile, da tenere sempre nel cuore.