Carissimi amici dopo aver sentito e ricordato nel mio post ”MOOD MUSIC TAG” tanta buona musica, mi scuserete se ne torno a parlare. Torno a farlo perchè ho notato nei vari commenti al mio post che nessuno, come amore musicale, ha nominato ( compresa la sottoscritta ) uno dei complessi rock che invece per me lo è davvero ( amore musicale intendo ) : i QEEN. La prima volta in cui sentii RADIO GA GA, brano composto da Roger Taylor, ispirato dal piccolo figlio Felix il quale, commentando una musica alla radio, aveva detto che era ”radio ka – ka”, rimasi fulminata e me la porto dentro da allora. Nel 1984 quando uscì, mio figlio aveva sei anni. Sentendola più volte dentro casa è cresciuto si può dire nel mito dei Qeen diventando, sulla scia della madre, un cultore del gruppo. Sono stata capace di trasmettergli tutta la mia passione a riguardo tanto da fargli acquistare ormai diventato liceale, tutti i loro cd , almeno quelli che mancavano alla mia raccolta, e non vi dico quanto in casa io abbia ballato da sola, ascoltandola, la loro musica straordinaria. Non solo, da lì è partita la sua di passione ( anche mia a dire il vero ) per tutta l’ottima musica dei più grandi artisti e gruppi quali Pink Floyd, Bruce Springsten, Genesis, Police, Eric Clapton e così via. Ci ha riempito casa dei cd più importanti di ciascuno e debbo dire con gioia che oggi la sua è un’ottima collezione con la quale deliziarci e passare un pò di tempo, ascoltando con piacere tanta buona musica, quando siamo in vena ovviamente. Eh sì perchè a volte anche un’ottima infornata di musica classica rilassa allontanando magari stress e tensioni. E’ per questo motivo che ho deciso di raccontarvi qualcosa , a grandi linee, si capisce , per quello che sarò capace, di questo gruppo, il ”mio” gruppo. Un abbraccio a tutti
”Se dovessi morire domani, non mi preoccuperei. Dalla vita ho avuto tutto. Rifarei tutto quello che ho fatto? Certo, perchè no ? Magari un pò diversamente! Io cerco solo di essere genuino e sincero e spero che questo traspaia dalle mie canzoni” FREDDY MERCURY- 1986
”Non voglio cambiare il mondo, lascio che le canzoni che scrivo esprimano le mie sensazioni e i miei sentimenti. Per me, la felicità è la cosa più importante e se sono felice, il mio lavoro lo dimostra. Alla fine tutti gli errori e tutte le scuse sono da imputare solo a me. Mi piace pensare di essere stato solo me stesso e ora voglio soltanto avere la maggior quantità possibile di gioia e serenità, e immagazzinare quanta più vita riesco, per tutto il poco tempo che mi resta da vivere.” ULTIMA INTERVISTA DI FREDDY MERCURY- 1991
Penso che mettere in piedi una vera band ( in questo caso ”rock band” ), sia qualcosa di molto difficile perchè non sempre può andare tutto bene in maniera tale da passare alla storia. Molti sono i fattori che contribuiscono a far nascere qualcosa di unico e irripetibile. In primis gioca un ruolo non indifferente la casualità, come del resto in tutte le cose. Gli incontri tra persone con gli stessi intenti ad esempio. E parlando di musica c’è poi quel quid, quell’avere in comune un amore smisurato per il suono, la melodia, lo strumento che apre le porte ad un mondo magico, unico, fatto di sensazioni profonde. Ecco che allora un incontro casuale può dare origine ad un qualcosa su cui nessuno avrebbe scommesso. I Qeen sono e rappresentano tutto questo. Il loro sodalizio artistico ed umano iniziato per caso nelle vie di Londra porterà a risultati che lasceranno il segno nella musica rock, dalla fine degli anni ’60 e per vent’anni, e tutto è dovuto oltre che alla bravura di ogni singolo musicista, soprattutto alla loro grande amicizia, al rispetto che avevano l’uno per l’altro, alla capacità di ognuno di coltivare le proprie scelte musicali senza prevaricazioni, ma mettendole al servizio l’uno dell’altro, e quindi alla grande armonia creatasi all’interno del gruppo. Perfino i loro testi testimoniano questo stato di cose. Valori come l’amore universale, l’amicizia , domande esistenziali su cui riflettere , tutto è racchiuso nelle loro canzoni. Tutti i loro concerti sono rimasti nella storia perchè sempre ricercati, sfarzosi e spesso molto teatrali. E proprio questo piaceva molto a Freddy Mercury. Fare in modo che lo spettacolo fosse davvero completo, quasi una rappresentazione teatrale dove unire musica e danza e grande scenografia, senza dimenticare l’uso sempre più magico delle luci. Concerti che fecero il pienone in tutti gli stadi d’Europa conquistando sempre più fan che accorrevano e rimanevano stupiti di fronte a tanta magnificenza.
Tutto comincia a Londra. Quella Londra degli anni ’60, che il 15 aprile del 1966 il TIME definì ”the swinging city” ovvero la città oscillante. Ed è proprio l’atmosfera esplosiva della Swingin’ London che attira nei suoi club e nei quartieri più alla moda, centinaia di artisti e musicisti da tutto il Regno Unito, che lì trovano l’ambiente più creativo e all’avanguardia del momento accanto alla prospettiva di realizzare i propri sogni. Dopo i Beatles e i Rolling Stones, i Who di ” My generation”, la scena musicale londinese sembra essere l’ambiente adatto per dare origine a nuove tendenze musicali, dal ” blues britannico’‘ degli Yardbirds alle prime sperimentazioni dei Pink Floyd ad esempio ed il circuito universitario sembra essere un’ottima rampa di lancio per tutti. Le scuole d’arte sono un vivace punto d’incontro e come all’Imperial College di Londra , cominciano a farsi strada gruppi dell’area ”progressive” come i Genesis di Peter Gabriel, i Jethro Tull, mentre nel 1968 esordisce per la prima volta la formazione dei Led Zeppelin. Tra le tante bands che sono presenti sulla scena all’Imperial College nell’inverno del 1967, scontrandosi con le difficoltà del mondo rock, c’è un gruppo chiamato 1984 in cui suona un giovane chitarrista : Brian May.
fonte : QEEN – a cura di Max Felsani, Michele Primi, e Mauro Saita Edizioni Giunti
Ludwig van Beethoven amava molto passeggiare e quindi usciva ogni giorno di casa, con qualsiasi tempo. Se il cielo era clemente si avviava in campagna, se pioveva restava in città. Camminava lentamente per le vie di Vienna, si soffermava davanti ai negozi, talvolta ne varcava la soglia per un acquisto. Entrava sovente anche in qualche caffè o addirittura nelle osterie. In mezzo alla gente comune era allegro e disteso, assai più di quanto non lo fosse nei salotti dell’aristocrazia, dove spesso si sentiva a disagio. Talvolta non disdegnava pranzare in trattoria con gli amici. Anzi ne era molto contento. Erano le ore in cui si distendeva, si abbandonava all’estro del momento, meravigliava i presenti con battute di spirito, con commenti caustici e pieni di umorismo. A volte diventava talmente allegro tanto da stupire gli amici abituati a vederlo accigliato. Come tutti i viennesi, amava passeggiare al Prater, il vastissimo parco alle porte di Vienna che, un tempo proprietà della famiglia imperiale, era stato aperto al pubblico dall’imperatore Giuseppe II. Il Prater aveva magnifici viali dove, al trotto, andavano e venivano carrozze, nelle quali intere famiglie si godevano il piacere di una corsa ad andatura dignitosamente moderata. Qua e là, dove gli alberi formavano una specie di anfiteatro, suonavano orchestre che alternavano pezzi d’opera a musica sinfonica, e a marce militari. Sotto agli alti castagni erano sistemati piccoli accoglienti caffè frequentati da un pubblico vivacissimo che dava l’impressione che fosse sempre domenica. Con il suo taccuino in mano, il grande Ludwig passeggiava senza una meta precisa, sognando ad occhi aperti ( cosa che gli capitava spesso), mescolato tra la folla, tra bambini che gli correvano incontro per offrirgli fiori. Abbastanza spesso Beethoven lasciava il Prater per ritrovare i suoi amici all’Albergo del Cigno Bianco, al ”Cammello nero”, alla ”Città di Trieste”, caratteristici locali alla moda dove, tra il fumo del tabacco e l’acre odore dell’alcool, fervevano discussioni che toccavano i più disparati temi connessi all’arte e alla vita del pensiero. Beethoven entrava; si sedeva ad un tavolo, ordinava un bicchiere di birra e ad occhi chiusi fumava una grossa pipa. Se qualche amico lo toccava su di una spalla, si risvegliava come da un sogno aprendo gli occhi , estraeva il suo ”quaderno di conversazione’ e ordinava a gran voce all’interlocutore di scrivergli ciò che voleva chiedergli. In alcune locande i musicisti si riunivano per presentare anche le loro composizioni . Capitò così che alla ”Zum wilden Mann” Beethoven facesse eseguire i suoi stupendi quartetti dal famoso complesso Shuppanzigh. Frequentando le allegre compagnie, Ludwig imparò a gustare lo champagne, anche se ricordando il padre semi-alcolizzato cercava di astenersene il più possibile, scrivendo all’amico Kuhlau che” queste cose soffocano, anzichè eccitare il mio fervore creativo”. Gli piaceva conversare di politica ( dopo la Rivoluzione francese era convinto che ben presto in Europa ci sarebbero state tutte Repubbliche), era colto, leggeva molto. Naturalmente frequentava anche i negozi di musica, famosi a Vienna, dove ogni settimana poteva incontrare gente del suo mondo, maestri, editori e dilettanti di musica. Bel mondo no, che ve ne pare? Nel prossimo post dedicato a questo grande musicista, racconterò qualcosa della sua sordità.
Il Caffè D’Argento in Spiegelgasse, litografia di Katzler
La Locanda del Cigno Bianco al mercato nuovo
Antonio capisci ora perchè mi sarebbe piaciuto vivere al tempo di Beethoven a Vienna? Mi pare si respirasse aria di cultura e fosse una città altamente vivibile… meglio senz’altro delle città di oggi convulse e piene di traffico.
fonte: I Grandi di tutti i tempi — Beethoven
Periodici Mondadori
Le nuvole. Belle, di un candore immacolato, vanno e vengono, evanescenti, inafferrabili, perennemente mutevoli. E osservarle con il naso all’insù può stimolare in qualcuno un interesse maggiore che non sia solo legato ad un aspetto poetico quanto per indagare gli enigmi della natura .Ed infatti si occuparono di esse già Aristotele e Cartesio, grandi filosofi. Ma fu nella metà del Seicento che si avviò il primo progetto mondiale di studio sul clima. E ciò avvenne nel Granducato di Toscana. Qui governava Federico II de’ Medici, uomo dai molteplici interessi scientifici, il quale fece installare una dozzina di stazioni metereologiche, sistemate in vari osservatori astronomici, a partire dai suoi territori fino all’Europa centrale. Gli operatori all’interno, compilavano una tabella prestabilita rilevando temperatura, pressione, venti, umidità, visibilità e poi la inviavano a Firenze. La coraggiosa operazione andò avanti per tredici anni fino al 1667, quando insormontabili difficoltà di comunicazione, misero fine all’ambizioso progetto. Da quel tentativo tuttavia emergeva la necessità di avere dei riferimenti precisi riguardo i comportamenti della meteorologia. Impresa non facile che vide una passione naturale portare il giovane britannico Luke Howard (1772- 1864) a occuparsene partendo dall’aspetto più seducente del cielo, le nubi appunto. Raccontava di essere stato folgorato, ancora undicenne, dall’estate del 1783 quando a causa di due grandi eruzioni vulcaniche in Islanda e in Giappone, la volta celeste offriva spettacoli e colori indimenticabili. Figlio di un farmacista, anche lui si avviava allo stesso mestiere, ma scrutando e prendendo appunti quasi ossessivamente tutti i giorni sulle formazioni nuvolose che solcavano l’orizzonte, per cercare di distinguerle, scoprirne anche i loro meccanismi. Alla fine del Settecento l’Europa, scossa dalla rivoluzione francese, aveva innescato cambiamenti politici rilevanti accendendo anche interessi sociali e culturali verso la comprensione della natura prima inesistenti. I cittadini londinesi animavano la città in modo particolare dando vita e frequentando incontri dove si spiegavano gli enigmi della scienza. Ed era in Lombard Street che la Società Askesiana fondata da un gruppo di giovani quaccheri organizzava nel dicembre 1802 un incontro nel quale Luke Howard presentava le sue idee elaborate sulle nubi a lungo inseguite. Tra gli ascoltatori c’era Alexander Tilloch , editore di Philosophical Magazine, la più nota rivista scientifica inglese del momento. Impressionato dalle nuove e precisi descrizioni decideva di pubblicarle con il titolo ” Sulle modificazioni delle nubi. ” Scriveva Howard : ”Per consentire ai meteorologi di applicare lo strumento dell’analisi all’esperienza altrui, può forse essere opportuno introdurre una nomenclatura metodologica applicabile alle diverse forme di acqua sospesa( nell’atmosfera) , ovvero alla modificazione delle nubi.” E definiva tre tipi, Cirrus, Cumulus e Stratus ai quali poi aggiunse Nimbus. La semplice illustrazione delle mutevoli forme nuvolose veniva bene accettata non soltanto in Inghilterra ma anche in Europa grazie all’uso del latino, un linguaggio noto e comprensibile nei vari Paesi. In secondo luogo Howard si era adeguato al clima di ordinamento della natura inaugurato dal medico e botanico svedese Carl Linneo che aveva classificato scientificamente gli organismi viventi, piante e animali. Un criterio ben diverso aveva invece adottato in un tentativo analogo l’illustre contemporaneo e naturalista francese Jean – Baptiste de Lamarck, già noto e discusso autore di una prima teoria sull’evoluzione . Ma avendo fatto l’errore di utilizzare termini francesi questo affogò definitivamente il suo tentativo. La nomenclatura di Howard invece, si diffondeva rapidamente diventando anche un fenomeno culturale. Il grande letterato Goethe ne rimaneva tanto colpito da scrivere versi dedicati proprio ad Howard. Celebri uomini d’arte come i pittori romantici John Constable e William Turner guardavano e riproducevano il fascino misterioso delle nubi nei loro dipinti e il critico d’arte John Ruskin adottava la nomenclatura nell’esame dei quadri. In questo modo Luke Howard con ”l’invenzione delle nubi” diventerà il ”padre della meteorologia” e i suoi termini latini arricchiti da successive variazioni compaiono ancora oggi nelle carte dei meteorologi. E i venti ? Come si arrivò a studiarli ? Nel 1880 il capitano William Scoresby usava già le nuove tavole navigando sulla baleniera Resolution ma lamentava l’assenza di una valutazione simile per i venti dai quali il mare dipendeva. E tentava, senza successo, la composizione di una scala. In realtà anche un altro comandante, Francis Beaufort (1772- 1864) era impegnato sullo stesso fronte e dal 1806 aveva compilato una classificazione che iniziò ad usare nel suo viaggio in Sud America per delineare l’idrografia del Rio della Plata. Contava 14 gradi di forza del vento tra calma e tempesta, passando per brezza leggera, brezza fresca e vento moderato stabile. Il suo sforzo però, arriverà a compimento quando riuscirà a integrare i vari tentativi elaborati a partire dalla metà del Settecento, per i venti sulla terra e sul mare collegando la loro forza agli effetti sugli oggetti. A tal fine si era, ad esempio , considerata la pressione esercitata sulle pale dei mulini a vento. L’accettazione della sua proposta si rivelava comunque difficile, e soltanto nel 1829 quando sarà eletto idrografo della Marina, riuscirà a promuoverla con efficacia. Tra i primi ad adottarla , per suo ordine,ci fu il capitano Robert Fitzroy comandante del brigantino Beagle. I due nomi segneranno la storia della scienza, perchè, proprio Beaufort, fece da intermediario all’Ammiragliato sostenendo l’opportunità d’imbarcare sul brigantino il giovane naturalista Charles Darwin. Dal lungo viaggio nacque la scoperta dell’evoluzione descritta nella ”Origine della specie” la cui pubblicazione irritò Fitzroy fanatico antievoluzionista. L’impegno di Beaufort sarà premiato nel 1838 quando la Marina britannica adottò ufficialmente la sua scala imponendola su ogni bastimento. Intanto, dalla sua posizione, dirigeva numerose esplorazioni: da quella di John Franklin in Artico per cercare il passaggio a nord-ovest, alla spedizione di James Clark Ross per la misurazione del magnetismo terrestre. Non a caso con il suo nome veniva battezzato il Mare di Beaufort nell’Oceano Artico e l’isola di Beaufort nell’oceano Antartico. Così agli inizi dell’Ottocento, nel secolo del positivismo scientifico, le nubi e i venti avevano trovato i loro misuratori.
Se darete un’occhiata a questo link vi tufferete nella pittura di John Constable rimanendone piacevolmente colpiti come è successo a me.
fonte da un articolo di Giovanni Caprara su Sette 12-07-2013