Archivi categoria: curiosando quà e là

twochums.com

visitorsguidetoscotland.com

La Regina Elisabetta II si è spenta qui, nel luogo che amava più di ogni altro. L’addio a Balmoral è stato l’addio al luogo della normalità familiare di Elisabetta, delle vacanze estive con il marito, i figli e poi i nipoti. Luogo in cui – come ha raccontato alla Bbc l’ex premier David Cameron, sul filo di una testimonianza diretta – poteva capitare di vedere il principe consorte Filippo preparare un barbecue o la regina medesima servire l’ospite di turno a tavola e sparecchiare in un’atmosfera informale.   Fu nel 1852 che la regina Vittoria e il marito Alberto comperarono la tenuta scozzese di Balmoral, che divenne ogni anno in autunno per almeno due settimane il luogo di vacanza della famiglia reale. Fu il principe in persona a suggerire il progetto del castello e a seguire fino in fondo i lavori. ” Tutto è una creazione del mio diletto Alberto ”, amava dire la regina che proprio per questo fu per sempre a questo luogo particolarmente affezionata. Il podere sulle rive del fiume Dee viene citato per la prima volta nel 1484 con il nome di Bouchmorale.

latinacittaaperta.info La regina Vittoria e suo marito Alberto

Alla scelta del luogo, a quanto pare concorse la considerazione secondo la quale il clima di Balmoral fa bene alla salute. Questo fu certamente uno dei motivi che indussero la coppia regale a comperare la tenuta scozzese, dopo aver sentito, come era allora una tipica consuetudine inglese, anche il medico , che consigliava appunto di sfruttare appieno l’ aria buona del luogo.

Nel 1848 la famiglia reale prese in affitto il podere e quattro anni più tardi lo acquistò. Da questo momento le Highlands , prima considerate straniere dagli abitanti delle pianure, divennero luogo privilegiato di vacanza. La palazzina di caccia esistente venne sostituita dall’ attuale costruzione, progettata dall’ architetto William Smith nel 1853. Lo stile neobaronale scozzese con torrette e merli, divenne una moda dopo il completamento di Balmoral Castle. Ma oltre alla predilizione per la campagna scozzese, altre ragioni spinsero la famiglia reale all’ acquisto : e cioè la necessità di mostrare che Vittoria non era soltanto regina d’ Inghilterra, ma anche di Scozia, e che gli scozzesi del Regno Unito non venivano trascurati o trattati, com’era successo un secolo prima, da popolo conquistato.

Alla fine dell’ Ottocento la regina Vittoria pose la prima pietra della chiesetta frequentata dalla famiglia reale durante i loro soggiorni a Balmoral. All’ inizio i suoi membri si fermavano in Scozia per un mese e mezzo circa, ma dopo la morte di Alberto, nel 1861, Vittoria prese l’ abitudine di trascorrere nella tenuta diverse settimane per tre volte all’ anno . i successivi sovrani, fino ad Elisabetta II, passavano qui di regola due mesi all’ anno. La dimora era particolarmente cara alla regina madre, che andava volentieri a pescare nel fiume Dee.

Il ” diletto Alberto ” fu il primo membro della casa reale ad appassionarsi alla Scozia, fino a quel momento considerata una terra reietta, infida, e semibarbara. Si deve a lui ad esempio l’ abitudine d’ indossare a Balmorale Castle il tradizionale costume scozzese , con il kilt dai colori della casa reale degli Stuart ( moda seguita con particolare convinzione dal figlio di Elisabetta II principe oggi re, Carlo III ). C’ era in questo apprezzamento , molto romanticismo, e in parte anche l’ influenza dei romanzi di Sir Walter Scott, ma senza ombra di dubbio favorì un concreto avvicinamento tra i due regni della Gran Bretagna.

All’ interno della tenuta reale si trova il monte Lochnagar, alto 1000 metri che dà il nome alla famosa Royal Lochnagar Distillery dove si produce un ottimo whisky . La distilleria, fondata da John Begg , può fregiarsi del titolo di royal da quando la Regina Vittoria la scelse come fornitrice di corte.

schottlandberater.de Royal Lochnagar Distillery

Nel campo di golf presso il castello si ergono le statue della regina Vittoria e del consorte ( 1868 ) . Quest’ ultimo è raffigurato in veste di cacciatore, con il cane e il tradizionale gonnellino scozzese: secondo le dichiarazioni della regina, questa era l’immagine del marito più vicina alla realtà.

Interessanti , all’ interno del castello, una sala con dipinti e oggetti artigianali nonchè delle carrozze d’ epoca.

Il grande parco offre ampie vedute del paesaggio scozzese, mentre il roseto, molto ben curato, fu piantato dalla regina Maria, moglie di Giorgio V e nonna di Elisabetta II.

La strada panoramica 939 di montagna, porta da Balmoral a Tomintoul , il più elevato villaggio scozzese.

PA Images

Qui si vede dagli occhi di Elisabetta la gioia di poter stare a Balmoral. Per lei era stare veramente a casa, lontano dagli impegni di corte, vivere a contatto con la natura e con il suo amato Filippo e i figli.

Fonte : Castelli d ‘ Europa – Misteri, storie e leggende scritte nella pietra De Agostini

Amici miei, siamo ormai fuori dal covid. Spero , nonostante il mio tempo a disposizione per scrivere , sia molto diminuito , di poter tornare qui più spesso. Per ora vi stringo tutti in un forte abbraccio. Pensatemi sempre come io vi penso

La vostra Isabella

PS Questo articolo volevo pubblicarlo dopo la morte di Elisabetta , ma per cento motivi solo ora sono riuscita a terminare la bozza. A presto


Ho    pensato   di   raccontarvi   un   pò   di   Leonardo,   quando   ho   saputo   della   fiction   che   sarebbe   andata   in   onda   sulla   Rai.   Non   ho   avuto   modo   di   finire   il   post   prima   del   suo   inizio,   come   mi   sarebbe   piaciuto,   per  colpa   di   wordpress   e   dei   suoi   complicati   nuovi   sistemi   che   mi   hanno   mandato  in   tilt.  Se   non   avessi   avuto   l’  aiuto   di   Jane   del   blog   lanostracommediajalesh2.wordpress ,   che  non  smetterò   mai  di  ringraziare   per   la   sua   disponibilità,   non   sarei   certo   qui.   Comunque   spero   che   il   post   possa   interessarvi .   Eccolo.   Buona   lettura.

L  ‘ ANATOMIA

Il   corpus   dei   disegni   anatomici   di   Leonardo,   composto   di   circa   duecento   fogli,   è   conservato   nella   Royal   Library   di   Windsor.   Sono   disegni   di   grande   interesse   e   fascino   realizzati   in   un   mirabile  equilibrio   tra   arte   e   scienza   All’ osservazione   del   corpo   umano   Leonardo   si   votò   con   una   dedizione   tanto   straordinaria   da   suscitare  l’ ammirazione   dei   contemporanei   come   si   ricava   dalle   parole    di   Antonio   De   Beatis   che   nel   1517   visitò   insieme   al   cardinale   d’ Aragona   lo   studio   dell’ ormai   anziano   Leonardo   in   Francia  :

”  Questo   gentilhomo   ha   composto   di   anatomia   tanto   particularmente   con   la   dimostrazione   della   pittura ( … )   di   modo   non   è   stato   mai   fatto  ancora   da   altra   persona.   Il   che   abbiamo   visto   oculatamente   et   già   lui   ne   disse   aver   fatta   notomia   di   più   di   trenta   corpi   tra   maschi   e   femmine   di   ogni   età.  ”

Fino   all’inverno   del   1507-1508,   Leonardo   non   pratica   la   dissezione   in   modo   sistematico.   A   questa   data   gli   si   offre   la   possibilità   di   approfondire   le   conoscenze   anatomiche   direttamente   sul   cadavere   di   un   vecchio   all’ ospedale   di   Santa   Maria   Nuova   in   Firenze,   come   egli   stesso   ricorda   in   una   famosa     nota   :

”  Questo   vecchio,   poche   ore   prima   della   sua   morte,   mi   disse   di   passare   i   cento   anni,   e   che   non   si   sentiva   alcun   mancamento   nella   persona   altro   che   la   debolezza,   e   così   standosi   a   sedere   su   un   letto   nell’ Ospedale   di   Santa   Maria   Nova   di   Firenze   senz’  altro   movimento   o   segno   d’   alcuno   accidente   passò   di   questa   vita ;   ed   io   ne   fece   l’ anatomia   per   vedere   la   causa   di   sì   dolce   morte ( … )  la   quale   anatomia   descrissi   assai   diligentemente   e   con   gran   facilità   per   essere   il   vecchio   privo   di   grasso   e   di   umore,   il   che   assai   impedisce   la   cognizione   delle   parti  ” . 

A   questa   esperienza,   così   centrale   nella   rinnovata  indagine   anatomica    di   Leonardo,   perchè   fondata   sull’ osservazione   diretta   del   cadavere   invece   che   su   conoscenze   mediche   acquisite ,   segue   la   pratica   dei   successivi   anni   lombardi   (   1510  –  1511  )   quando   la   frequentazione   di    Marcantonio   della   Torre,   giovane   ma   già   affermato   medico  –  anatomista   in   Pavia ,   dovette   stabilire   un   interessante   rapporto   di   scambio   tra   i   due.   Infine   si   ha   notizia  di   studi   anatomici   condotti   a   Roma   tre   il   1514   e   il   1515,   nell’   Ospedale   di   Santo   Spirito,   interrotti   per   le   accuse   di   negromanzia   dovute   alla   delazione   di   un   suo   assistente   tedesco.   I   risultati   di   questa   indagine   decennale,   se   non   decisivi   ai   fini   del   progresso   della   scienza   medica,   furono   sicuramente   straordinari   nel   campo   dell’  illustrazione   anatomica,   fino   a   quel   momento   ancora   rozza   e   approssimativa.   Leonardo   si   propose   di   redigere   ,   a   similitudine   della   Cosmografia    di   TOLOMEO,   , un   ”  atlante   anatomico  ”   composto   da   diverse   tavole   che   raccogliessero   la   sua   esperienza   su   vari   cadaveri,   in   modo   da   fornire   uno   strumento   utile   e   chiaro,   ancor   più   della   pratica   anatomica   diretta.   Come   si   può   ben   intendere   dalla   seguente   orgogliosa   rivendicazione,   straordinario   esempio   di   prosa   scientifica   ad   alto   livello,   oltre   che   testimonianza   delle   difficoltà,   spesso   repellenti,   alle   quali   Leonardo   si   sottopose   per   amore   della   conoscenza  :

”  E   tu   che   dici   esser   meglio   veder   fare   l ‘ anatomia   che   vedere   tali   disegni,   diresti   bene   se   fosse   possibile   vedere   in   una   sola   figura   tutte   le   cose   che   nei   disegni   si   mostrano  ;     ma   con   tutto   il   tuo   ingegno   in   questa   non   vedrai   e   non   avrai   notizia   se   non   d’  alquante   poche   vene  (  …  ).   E   un   sol   corpo   non   bastava   a   tanto   tempo   che   bisognava   procedere   di   mano   in   mano  con   tanti   corpi   per   avere   completa   cognizione,   la   qual   cosa   feci   due   volte   per   vedere   le differenze  ( … )   E   se   tu   avrai   l’ amore   a   tal   cosa,   tu   sarai   forse   impedito   dallo   stomaco  ,   e   se   questo   non   ti   impedisce   tu   sarai   forse   impedito   dalla   paura   di   abitare   in   tempi   notturni   in   compagnia   di   tali   morti   squartati   e   scorticati   e   spaventevoli   a   vedersi ;   e   se   questo   non   t’impedisce   forse   ti   mancherà   il   buon   disegno,   che   si   addice    a   tale   figurazione  ;   o,   se   avrai   il   disegno ,   non   sarà   accompagnato   dalla   prospettiva  ;   e,   se   lo   sarà,   ti   mancherà   l’ ordine   della   dimostrazione   geometrica,   o   il   calcolo   delle   forze   e   della   potenza   dei   muscoli  ;  o   forse   ti   mancherà   la   pazienza  ;   così   che   tu   non   sarai   diligente.   Se   tutte  queste   cose   sono   state   in   me   o   no,   i   centoventi   libri   (  capitoli  )   da   me   composti   ne   daranno   sentenza,   nei   quali    non   sono   stato    impedito   nè   da   avarizia   o   negligenza  ma   solo   dal   tempo.   Vale .”

Visualizza immagine di origine

Spaccato   di   una   testa   umana (   1493 – 1494  circa  )   Windsor,     Royal   Library (  RL12603r ; K/P32r  )

I   primi   veri   studi   anatomici   di   Leonardo   risalgono   agli   anni   1487  –  1493,   quando   si   trovava   a   Milano.   Si   tratta   di   esplorazioni   del   cranio   (  reso   nei   disegni   con   straordinaria   accuratezza,   anche   prospettica  )   attraverso   le   quali   Leonardo   si   proponeva   di   scoprire   il   luogo   d’ incontro   di   tutti   i   sensi,   o   ” senso   comune ”   ritenuto   tra   l’  altro   sede   dell’ anima.   

Egli   considera   la   testa,   soprattutto   il   suo   contenuto   come   ”  la   scatola   delle   magnificenze ”   che definisce   “il   conservamento   nascosto   delli   sensi   umani   che   s’incontrano   collo   spirito   in   questa   scatola   del   mistero”,  ed   è   proprio   da   qui   che   tutto   ha   origine. 

Secondo Leonardo il cranio è la casa degli occhi per osservare, delle orecchie per l’ascolto, del  naso per assorbire i profumi, della bocca per godere del cibo e per “dir di parola”.

Vedute   laterali   del   cranio   (   1489   circa  )   Windsor  –   Royal   Library  (   RL19057r ; K/P 43r )

L’ attività   di   pittore   e   l’ indagine   della   natura,   fondate   sull ‘  osservazione   dei   fenomeni,   dovettero   far   scattare   in   lui   l’ interesse   per   il   funzionamento   dell ‘  occhio   quale   strumento   della   vista.   Già   agli   inizi   degli   anni   novanta,   Leonardo   disegna,   seguendo   le   indicazioni   degli   autori   antichi,   i   bulbi   oculari   dai   quali   i   nervi   ottici   si   dipartono   per   arrivare   al   cervello.   E   ancora   si   dedica,   ma   con   maggiore   indipendenza,    allo   studio   della   connessione   occhio – cervello   agli   inizi   del   XVI   secolo ,   disegnando   per   primo   il   chiasma,   o   punto   d’ incontro   dei   nervi   ottici.

L’  indagine   sui   ventricoli   del   cervello   (   non   umano   ma   bovino  ),   venne   in   seguito   ulteriormente   perfezionata   da   Leonardo   attraverso   la   messa   a   punto   di   un’ ingegnosa   tecnica   scultorea   consistente   nell’ iniezione   di   cera   fusa   che   una   volta   rappresa   e   liberata   dal   suo   contenitore   sarebbe   stata   in   grado   di   rivelare   la   forma   di   quella   parte   anatomica.

FONTE  :  LEONARDO    Arte   e   scienza    –    Giunti

Per non dimenticare comunque quanto la sua pittura sia stata straordinaria anche al di là de

” La Gioconda ” che rimane il suo indiscusso capolavoro, vi lascio qui due suoi dipinti che adoro,

accompagnati da due mie poesie . Spero nel vostro gradimento. Scusate la mia poca presenza ma

è un periodo pieno di impegni purtroppo che mi limita nel tempo a mia disposizione per fare

quello che ahimè mi piacerebbe fare. Vi abbraccio con un abbraccio circolare per non dimenticare

nessuno. Vi penso sempre.

La vostra Isabella

Madonna Benois

Com’ è   dolce

e   tenero

qui ,

il   rapporto

tra

Madre   e   Figlio.

Come   intenso

è   lo   sguardo   

della   giovane

  Vergine.

C’ è   

nell’ insieme

una   certa   dinamicità,

in   quella   mano

della   Madre

che   porge

un   piccolo   fiore

per   trastullo

al   Figlio.

Una   gioia

traspare

da   quel   volto  

sorridente,

nel   vedere

quelle   manine

pronte

a   far   proprie

quelle    timide

corolle.

Un   dipinto

di   sentimento,

d’ infinita   dolcezza

interiore.

Isabella   Scotti   aprile   2021

testo  :   copyright   legge   22   aprile  1941   n°   633

Visualizza immagine di origine

Leonardo – Ritratto   di   Ginevra   de’   Benci

Ginevra

ti   chiamavi,

donna   colta

eri.

Qui ,

  malinconicamente ,

il   tuo   sguardo

rivela

come ,

sposata ,

tu   non   fossi

   felice.

Senza   gioielli

che   ornino

il   tuo  collo.

Bianco

come   porcellana

finissima

il   tuo   volto.

E   i   capelli,

quei   riccioli

d’ oro

che   lo   incorniciano,

bastano

a   renderti

splendida.

Così   lontana,

persa

nei   tuoi   pensieri,

ti   lasci

accogliere

dalle   fronde

del   ginepro,

quasi

immaginando

una   carezza

di   vero   amore ,

quello

che   ti   fu

negato ,

quando

fosti   data

in   sposa

a   chi

non   amavi.

Isabella   Scotti   aprile   2021

testo  :   copyright   legge   22   aprile   1941   n°   633


Carissimi   amici   per   concludere   queste   feste   che   l’ Epifania  ”  tutte   porta   via, ”,  ho   deciso   di   regalarvi   una   visione   d’ insieme   di   presepi   bellissimi,   visitati   a   Monteporzio   Catone  ,   qui   vicino   a   Frascati.   Una   mostra   che   un   gruppo   di   ”  Amici   del   presepe  ”   organizza   ogni   anno,   tutti   costruiti   con   materiali   tipo   gesso, polistirolo,    coloranti    naturali.   Vi   assicuro,   uno   spettacolo.    Guardate   qui   e   poi   ditemi…

 

Ecco   un   piccolo   borgo

 

 

Questa   donna   con   la   mano   destra   faceva   uscire   l’  acqua   dalla   fontanella   per   riempire   il   secchio

 

 

Questo  fabbro   si   girava   con   il  ferro   incandescente   in   mano   e   batteva   il   martello   sull’  incudine.   

 

Guardate   la   precisione   nei   dettagli

 

 

Buona   Epifania   a   tutti   cari   amici   anche   con   un   mio   acrostico

 

Visualizza immagine di origine

wallpaperstock.net

 

R    aggiungeranno   a   breve   il   Messia
E   ccoli,   si   vedono   in   lontananza

M   anca   poco
A   lla
G   rotta,   Lui   è   là
I   l    Salvatore ,    che    a   loro   e   agli   uomini   oggi,   6   gennaio,   si   manifesterà

 

 

Isabella   Scotti   gennaio   2020

testo  :   copyright   legge   22   aprile   1941   n°   633


Il    giardino   è   quel   luogo   dove   mi   piace,   se   possibile,   qualche   volta   passeggiare.

Ma   non  parlo   del   comune   appezzamento   di   casa   propria,   (  per   carità   ottimo   pure   quello  )   ma   di   quel   giardino   che   per   tradizione   ingentilisce,   con   piante,   fiori,   colori   e   profumi,   ville   antiche,   dimore   importanti.   Un   luogo   da   vivere   in   un   arco   di   tempo   che   va   dal   risveglio   primaverile,   alla   maturità   dell’estate,   con   qualche   concessione   al  seducente   declino   dell’autunno.   L’inverno   si   tende   un   po’   a   dimenticarla   come   stagione,   triste,   con   gli   alberi   spogli,   le   foglie   morte   ammucchiate   in   qualche   angolo.

Eppure   è   in   inverno,   nel   freddo   e   nel   riposo,   che   il   giardino   può   svelare   il   suo   vero   carattere,   quando   il   gelo   sottolinea   il   nitore   di   certe   forme,   disegna   arabeschi   sulle   siepi,   trasforma   i   prati   in   arazzi   di   erba   e   di  brina.

Pensiamo   anche   per   un   attimo   a   tutte   quelle   statue   che   nei   grandi   giardini   classici,   erano   un   ornamento   irrinunciabile,   un   mezzo   efficace   per   segnalare   la   raffinatezza   culturale   del   proprietario,   per   ostentare   le   ricchezze   di   famiglia,   vantare   origini   illustri   anche   se   improbabili.   Pensiamole   un   attimo   ricoperte   di   neve.   Putti   che   sembrano   riposare   contenti   sotto   una    soffice   coltre   bianca.   Tritoni   e   figure   mitologiche   che   sembrano   indossare   mantelli   a   coprire   quasi   le   loro   nudità.   Uno   scenario   irreale,   magico,   particolare.

E’   dal   XV   secolo   che   si   cominciano   a   progettare   in   Italia   giardini   che   possono   essere   considerati   veri   e   propri   archetipi   della   tradizione   giardiniera   occidentale.   Giardini   assolutamente   inediti,   segni   tangibili   di   quel   rinnovamento   economico   e   culturale   che   lascia   dietro   sé   la   lunga   stagnazione   dei   secoli   precedenti,   decretando   il   tramonto   degli   orti   medievali   per   promuovere   l’avvento   di   decori   e   ornamenti   concepiti   per   la   gioia   degli   occhi.   Nascono   così   gl’impeccabili   giardini”  all’italiana”,   che   nemmeno   nei   mesi   più   freddi riescono   a   perdere   quel   loro   aspetto   di   capolavori   di   ordine   ed   armonia,   nei   quali   all’epoca   si   rifletteva   il   razionalismo   e   l’orgoglioso   desiderio   dell’uomo   rinascimentale   di   dominare   la   natura.   Ogni   elemento   che   ricordasse   la   mutevolezza   delle   stagioni,   veniva   accantonato ,  per   dare   origine   così   a   giardini   assolutamente   artificiali,   senza   stagioni,   dove   ogni   angolo   era   regolato   da   precise   norme   architettoniche   che   nulla   lasciavano   al   caso.   Il   corredo   vegetale   era   composto   quasi   esclusivamente   da   alberi   e   arbusti   sempreverdi   che,   proprio   per   tale   caratteristica,   sembravano   capaci   di   sconfiggere   il   tempo,   dando   al   giardino   un   aspetto   definitivo.   Lecci,  pini   e   cipressi   piantati   in   file   ordinate,   oppure   tassi,   allori,   bossi   e   mirti    trattati   come   materiale   da   costruzione   e   trasformati   in   spalliere   e   in   siepi  squadrate,   oppure   potati   secondo    l’arte   topiaria  (   arte   di   potare  alberi   e   arbusti   dando   loro   una   forma   geometrica  )   in   sfere,   coni,   piramidi   o   in   bizzarre   figure   di   uomini   o   animali.

Risultato immagine per ars topiaria foto

genova.erasuperba.it

 

giardinaggio.org

In   questi   giardini   i   fiori   non   erano   previsti  :   troppo   effimeri   per   trovar   posto   in   spazi   che   volevano   sembrare   eterni   e   troppo   vistosi   per   decorare   aiuole   improntate   a   una   rigorosa   sobrietà   cromatica.   E   così   venivano   ospitati   in   un   angolo   nascosto   –   il   giardino   segreto   –   sistemato   vicino   a   casa,   ma   nettamente   separato   dalle   zone   di   rappresentanza,   dove   c’era   posto   invece   per   le   catene   e   i   giochi   d’acqua,   per   le   fontane   zampillanti   e   per   altri   decori   che   restavano   inalterati   nel   tempo,   mantenendo   il   loro   fascino   anche   nel   cuore   dell’inverno   appunto.

Anche   i   giardini   francesi   del   Seicento   nacquero   dal   desiderio   di   creare   spazi   verdi   dotati   di   una   bellezza   immutabile   e   al   di   là   dei   limiti   e   dei   vincoli   imposti   dalla   natura.   Ad   esempio   nello   sterminato   parco   di   Versailles,   si   erano   moltiplicate   le   statue,   le   fontane   avevano   raggiunto   il   culmine   del   fasto   e   in   più   erano   comparsi   viali   d’acqua,   cascate   e   immensi   bacini   di   forma   geometrica   che   riflettevano   il   cielo.   Le   ampie   terrazze   erano   state   ornate  con   ”parterre”  (   aiuole  )   che   mantenevano   inalterato   il   loro   aspetto   dall’estate   all’inverno.   I   più   raffinati   erano   i   parterres   de   broderie,   aiuole   trattate   come   stoffe   ricamate,   prive   di   alberi,   e   ornate   con   sottili   siepi   di   bosso   nano   che   formavano   elaborati   disegni   di   arabeschi,   tralci   e   volute   messi   in   risalto   da   un   fondo   colorato   ottenuto   con   sabbia,   limatura   di   ferro   o   polvere   di   mattone,   di   carbone,   di   marmo   o   ardesia.   Queste   aiuole   ordinate   e   precise   erano   state   create   per   il   piacere   della   vista   e   il   loro   schema   si   apprezzava   ancor   più   guardandole    dalle   finestre   dei   piani   superiori   dei   palazzi.   Dalla   Francia   si   diffusero   in   tutta   Europa   come   ad   esempio   in   Inghilterra,   dove   si   usavano   molto   i   ”giardini   a   nodi”   –   knot   garden   –   costituiti   da   basse   siepi   di   bosso,   timo   potate   in   modo   da   sembrare   intrecciate   tra   loro.   Uno   dei   più   rinomati   giardini   di   questo   tipo   è   senz’altro   quello   di   Barnsley   House   nel   Gloucestershire,    creato   dalla    grande  paesaggista   Rosemary   Verey   ( 1918 – 2001  )  molto   amato   da   Carlo,   principe   di   Galles,   che   dopo   la   sua   prima   visita   nel   1986,   vi   ritornò   ogni   primavera   ammaliato   da   tanta   bellezza.  A   dire   il   vero   soggiornerei   qui   anch’io   con   molto   piacere.

Risultato immagine per barnsley house

Barnsley House     kiwicollection.com

A   Versailles   comunque   i   viali   continuavano   a   essere   decorati   con   eleganti   topiarie   di   piante   sempreverdi   e   con   imponenti   pareti   di   tasso,   ma   in   alcuni   boschetti   avevano   fatto   la   loro   comparsa   anche   alberi   che   in   inverno   perdevano   le   foglie:   tigli,   ippocastani,   querce,   faggi,   olmi,   pioppi   piantati   artificiosamente   a   scacchiera,   ma   che   erano   indubbiamente   il   primo   sintomo   dei   nuovi   canoni   estetici   che   caratterizzeranno   i   parchi   paesaggistici   settecenteschi.

Risultato immagine per viali di versailles

tripadvisor.it   Reggia  di  Versailles   –   viale   con   topiaria

 

Anche   un   famoso   filosofo   inglese,   Francesco   Bacone,   nel   Seicento,   nei   suoi   Essays   aveva   criticato   l’artificiosità   dei   giardini   classici   e   aveva   avanzato   idee   decisamente   innovative,   mettendole   in   pratica   nello   spazio   che   circondava   la   sua   casa   di   Londra.   Qui   aveva   bandito   la   simmetria,   la   potatura   degli   arbusti   secondo   le   regole   della   topiaria,   e   gli   specchi   d’acqua   di   forma   geometrica,   dando   spazio   a   piante   che   crescevano   in   forma   libera   capaci   di   garantire   un   giardino   bello   in   tutte   le   stagioni.   Per   i   mesi   più   freddi   aveva   scelto   e   consigliava   specie   sempreverdi   come   agrifoglio,   alloro,   ginepro,   tasso,   lavanda   e   rosmarino,   e   ancora   crochi,   giacinti,    e   tulipani,   precoci   in   fiore   alla   fine   dell’inverno.   Per   apprezzare   in   pieno   maggio   e   giugno,   suggeriva   rose,    garofani,   peonie,   gigli   e   caprifogli.   Mentre   per   estate   e   autunno  proponeva   di   ricorrere   soprattutto   alla   frutta:   prima   ciliegie,   fragole,   ribes   e   lamponi,   poi   prugne,   pesche,   uva   ,   pere   e   mele.

Risultato immagine per foto bacone filosofo

dizionaripiu.zanichelli.it    Bacone

Fonte    Il   giardino   in   inverno   –   conoscere, progettare   e   scegliere   le   piante 

Maria   Brambilla

 


Visto  che  tra  un  pò  è  Pasqua,  e  qualche  dolce  sicuramente  imbandirà  le  nostre  tavole,  parliamo  un  pò  di  pasticceria,  un’arte  antica  che  esprime  una  capacità  manuale  accompagnata  ad  una  creatività  e  abilità   nel  mescolare  ingredienti  di  ogni  sorta   che  nei  secoli  si  è  sempre  più  specializzata  dando  origine   a  prelibatezze  per  tutti  i  gusti.

Risalgono  all’antico Egitto  le  rappresentazioni  dei  primissimi  laboratori   di  pasticceria,   attraverso  dipinti  che  raffigurano  la  lavorazione  di  pani  dolci  a  forma  di  animali  modellati  a  mano  o  in  stampi.  Anche  però  se  i  veri  precursori  dell’arte  pasticcera  furono  i  Greci,  che  fecero  largo  uso  del  miele  introducendo  nei  dolci  anche  la  frutta  (  uva,  noci,  mandorle).

I  precursori  invece  della  canditura  di  fiori,  frutta,  semi  furono  gli  Arabi  che  erano  soliti  servire  agrumi  e  rose  candite  nei  loro  banchetti.  I  canditi  di  fiori  rimasero  in  largo  uso  fino  a  tutto  l’Ottocento,  mentre  i  canditi  di  frutta  sono  ancora  oggi  utilizzati  nei  dolci  come  la  cassata,  la  colomba,  il  panforte  e  il  panettone.

Durante  l’Impero  Romano,  al  mestiere  del  panettiere  si  affiancò  quello  più  raffinato  del  pasticcere,  prima  svolto  unicamente  dalle  donne  poi  anche  dagli  uomini,  tanto  che  si  rese  necessaria  l’istituzione  di  una  ”lega  dei  pasticceri”  una  sorta  di  moderna  associazione  di  categoria.  In  epoca  romana  comparvero  anche  i  dolci  più  elaborati,  primi  ”esperimenti”  di  un’arte  che  svilupperà  la  pasta  sfoglia,  i  bignè,  i  budini…

Raffinatezza  e  maestria  erano  le  doti  attribuite  ai  pasticceri  francesi  nel  Quattrocento,  secolo  in  cui  si  formò  la  Confraternita  di  Sant’Onorato,  in  onore  del  Santo  rappresentato  con  la  pala  da  fornaio  su  cui  sono  posati  tre  pani.

Manuali  e  regole  scritte  di  pasticceria  risalgono  all’età  moderna.  Celeberrimo  il  ”Libro  de  Arte  Coquinaria”  di  Maestro  Martino,  dove  tra  l’altro  sono  trattati  i  tempi  di  cottura,  per  i  quali  si  consiglia  di  non  avere  fretta  e  di  regolarsi,  per  la  perfetta  riuscita  di  dolci  e  pietanze,  su  preghiere  recitate  a  memoria.

Tra  il  XVIII  e  il  XIX  secolo   la  pasticceria  tocca  vertici  altissimi  e  in  Europa  l’abilità  dei  ”maitres  patissiers”  come  Antoine  Careme  e  Jules  Gouffè  è  riconosciuta  come  una  vera  e  propria  forma  d’arte.

Oggi  nessuno  di  noi  penso  davanti  una  bella  pasticceria  potrà  passare  oltre…Penso  con  golosità   adesso  anche  a  tutte  le  belle  preparazioni  pasquali  di  questi  giorni. E  allora  siete  pronti?  Assaggiamo  qualcosa?  No,  miei  cari,  tratteniamoci  aspettando  la  Domenica  di  Pasqua.  Avremo  a  nostra  disposizione  colombe,  pastiera, uova  di  cioccolato  e  tutto  ciò  che  decideremo  di  mettere  in  tavola…Aurevoir

Fonte:  Da  ”Buongusto  –  ogni  sapore  ha  un  seguito”  Fratelli  Carli


Cari  amici  dopo  una  pausa  dovuta  a  festeggiamenti  familiari (  compleanni,  ricorrenze  varie)  tutti  concentrati  nella  prima  parte  del  mese  di  marzo,  torno  oggi  nel  giorno  in  cui  Arianna  compie  sei  mesi  per  raccontarvi  qualcosa  sulle  frittelle  che  si  mangiano  in  questo  giorno. Ma  purtroppo  con  il  cuore  triste  per  la  nuova  tragedia  di  Tunisi.  Voglio  chiedere a  voi  tutti  di  unirvi  in  preghiera  con  me  per  le  vittime  innocenti  dell’ennesimo  atto  sconsiderato  che  ha  sconvolto  un  paese,  la  Tunisia  appunto   e  il  museo  più  importante  dell’Africa ricco  di  mosaici  splendidi  e  antichi.  Persone  in  vacanza,  tranquille  e  rilassate , curiose  e  interessate  al  bello ,  si  sono  trovate  di  colpo   scaraventate  in  una  realtà  di  violenza  assurda  di  persone  che  in  testa  non  hanno  nulla  tranne  che  ignoranza  a  non  finire.  Voglio  augurarmi  che  in  seguito  a  questo  gravissimo  episodio  finisca  l’ immobilismo  imperante  da  parte  di  tutti  e  si  agisca  il  più  velocemente  possibile . Non  possiamo  solo  chiamarci  tutti  ”Charlie”  e  aspettare  altri  episodi  simili  senza  intervenire in  un  qualche  modo  deciso.  La  cultura  di  un  popolo  va  difesa  ad  oltranza,  il  conoscere,  il  sapere  è  ciò  che  rende  l’uomo  libero .Io  voglio  continuare  a  stupirmi  per  ciò  che  l’uomo  ha  realizzato  di  bello  su  questa  terra.  E  non  posso  non  credere  nell’uomo.

Il  19  marzo, festa  di  San  Giuseppe,  si  celebra  in  molti  luoghi  d’Italia  con  grandi  falò  e  diverse  manifestazioni  gastronomiche.  A   Valguarnera  nella  provincia  di  Enna,  ad  esempio,  si  rievoca  la  povertà  del  Santo  e  quindi  della  sua  Sacra  Famiglia  con  una  singolare  usanza:  i  ricchi  del  paese  preparano  per  i  meno  abbienti  enormi  costruzioni  piramidali  dette  ”tavole  di  San  Giuseppe”,  imbandite  di  ogni  tipo  di  dolciumi  e  cibo.   Tre  degli  invitati,  con  costumi  dell’epoca,  dovranno  impersonare  Giuseppe,  Maria  e  Gesù.  Se  poi  l’ospite  vuol  fare  le  cose  in  grande  dovrà  fornire  il  travestimento  anche per  far  impersonare  i  genitori  di  Maria,  sant’Anna  e  san  Gioacchino  e  i  dodici  Apostoli.  La  tradizione  dei  banchetti  per  i  poveri  nel  giorno  di  San  Giuseppe,  si   ripete  in  molte  altre  località  italiane,  soprattutto  nel  meridione.  A  Santa  Croce  Camerina  nel  ragusano,  s’imbandiscono  le  ”Cene”  in  onore  del  Santo  con  squisiti  prodotti  locali,  sebbene  la  specialità  della  festa  sia  un  tipo  di  pane  lavorato  e  decorato  a  mano  che  raffigura  oggetti  legati  a  San  Giuseppe,  come  il  bastone  fiorito.  Il  pane  viene  preparato  da  coloro  che  hanno  fatto  voto  al  Santo.  Intanto  tre  poveri  del  paese  nelle  sembianze  della  Sacra  Famiglia  di  Nazareth  girano  tra  le  case  dove  sono  state  allestite  le  ”Cene”  mangiando  e  portando  via  qualche  pietanza.  A  San  Marzano  di  Taranto  vengono  chiamate  ”matre”   altre tavole  imbandite  per  San  Giuseppe,  mentre  a  Vallelunga  Pratemano  in  provincia  di  Caltanissetta,  per  i  bambini  poveri  del  paese,  detti  ”verginelli”  si  mettono  a  tavola  dei  grandi  pani  che  pesano  dai  tre  ai  cinque  chili  di  forme  varie,  a  bastone,  a  treccia,  a  giglio.  Al  centro,  si  mettono  altri  cibi,  specialmente  la  frittura  di  ortaggi  (  soprattutto  cavolfiori  e  carciofi )  uova  sode  e  olive.  Cavolfiori  fritti  detti  ”frittelli”  vengono  offerti  anche  a  Roccantica di  Rieti,  nel  Lazio.   Cibi  fritti,  ma  in  particolare  dolciumi,  si  preparano  in  altre  località  e  la  tradizione  è  talmente  diffusa  che  il  Santo  è  stato  chiamato  popolarmente ” San  Giuseppe  frittellaro”.  Tant’è  che  una  volta,  andando  di  porta  in  porta,  chiedendo  a  parenti  ed  amici  le  dolci  frittelle,  i  bambini  cantavano  questa  filastrocca  ” Com’è  buono,  com’è  caro /  San  Giuseppe  frittellaro / Ad  ognuno  una  frittella / che  è  lucente  come  stella/

La  tradizione  di  consumare  dolci  fritti  è  tuttora  viva  in  molte  località  italiane,  come  nel  Lazio  meridionale,  tra  i  monti  che  separano  Fondi  da  Formia,  dove  la  notte  della  vigilia  della  festa  si  accendono  falò  in  onore  del  Santo,  e,  mentre  ardono  i  fuochi,  si  mangiano  ”le  seppele”  ,le  frittelle  dolci  consumate  dopo  la  cena  a  base  di  legumi  vari  e  salsicce.  Quando  a  terra  rimane  solo  la  brace,  i  ragazzini  gareggiano  nel  cosiddetto  ”salto  del  fuoco”  gridando  ”Evviva  San  Giuseppe  con  tutte  le  seppele  appriesse”  (  San  Giuseppe  con  tutte  le  zeppole  appresso)

I  ”falò  di  San  giuseppe”  sono  diffusi  in  tutta  Italia,  da  nord  a  sud.  A  Modica,  in  provincia  di  Ragusa,  la  ”vampata”  arde  per  tutta  la  notte  davanti  alla  chiesa  dedicata  al  Santo.  A  Lezzeno,  in  provincia  di  Como,  la  cerimonia  dei  roghi  è  documentata  fin  dal  1190  e  viene  premiato  il  più  grande,  mentre  a  Rocca  San  Casciano,  Forlì,  c’è  una  gara  tra  i  due  rioni  principali  del  paese  per  il  falò  più  spettacolare.  A  Scicli,  nel  ragusano  si  preparano  i  ”pagghiara”,  cioè  pagliai  da  bruciare  la  sera  mentre  per  le  vie  del  paese  si  snoda  una  processione,  in  ricordo  della  fuga  in  Egitto.  Ma  torniamo  alle  frittelle,  di  cui  tutti  penso  siamo  ghiotti.  Esse,  a  secondo  dei   luoghi  in  cui  si  preparano , assumono  nomi  diversi :  frittelle  di  riso  in  Umbria,  zeppole  a  Napoli  e  così  via.  A  Roma  i  tradizionali  bignè  di  San  Giuseppe,  sono  rigorosamente  fritti  e  ripieni  di  crema (  talvolta  anche  in  una  variante  con  ricotta).  Una  volta  i  migliori  erano  quelli  del  quartiere  Trionfale,  nei  pressi  di  San  Pietro,  attorno  alla  parrocchia  di  San  Giuseppe,  dove  la  festa  era  più  sentita  e  durava  una  settimana  intera .  ”Venite  tutte  qui  /  ciumachelle  belle/ venitene  a  magnà  le  mie  frittelle!”,  gridavano  i  ”frittellari”  ambulanti  alle  ragazze  che  a  Roma  erano  vezzeggiate  con l’appellativo  appunto  di  ”ciumachelle”,  cioè  ”lumachine”.  Al  calar  della  sera,  per  azzittire  i  bambini,  ormai  stanchi,  le  mamme  raccontavano  loro  in  dialetto  romanesco  la  vera  origine  delle  frittelle,  con  la  storia  in  versi  di  un  immaginario  quanto  improbabile  San  Giuseppe  che,  giunto  in  Egitto,  si  arrangiava  per  sbarcare  il  lunario  a  fare  il  ”frittellaro”:

 San  Giuseppe  faceva  er  falegname

e  benchè  fusse  artista  de  talento

nun  se  poteva  mai  levà  la  fame

pe’  quanto  lavorasse  e  stasse  attento…

 

Un  giorno  se  n’annò  in  Egitto  co’  Maria,

e  doppo  un  par  de  giorni  ch’arrivorno

uprì  de  botto  ‘na  friggitoria.

 

Co’  le  frittelle  fece  gran  affari.

Apposta  in  tutta  Roma,  in  de’  sto  giorno,

sortono  fora  tanti  frittallari.

 

Auguri  a  tutti  i  papà  che  in  questo  giorno  vengono  festeggiati  e  mi  raccomando,  offrite  loro  tante  buone  frittelle   o  bignè  di  San  Giuseppe,  così  la  festa  è  assicurata.

Dedico  il  post  alla  cara  amica  Laura:  http//laurarosa3892..wordpress.com// .  Visitate  il  suo  blog, troverete  tante  ottime  ricette  accompagnate  da  tanta  simpatia.

 

 

fonte:  da  un  articolo  di  Adolfo  Giaquinto

 


Corta  e  aderente  tunichetta,  calzoni  attillatissimi,  entrambi  in  una  stoffa  a  fondo  colorato  su  cui  si  intrecciano  fittamente,  fino  a  nasconderli,  rombi  e  losanghe  di  colori  diversi ;  mezza  maschera  sul  volto,  cappello  a  mezzaluna  nero:  ecco  l’elegantissimo  Arlecchino.  Ma  il  nostro  non  sempre  fu  abbigliato  in  questo  modo.  Arlecchino   non  fa  parte  dei  quattro  tipi  fondamentali  della  Commedia  dell’Arte,  essendo  piuttosto  una  delle  tante  varietà  del  quarto,  del  secondo  Zanni ( personaggio  tra  i  più  antichi  della  Commedia  dell’Arte ),  ed  infatti  al  suo  apparire,  nella  seconda  metà  del  1500,  vestì  come  questi,  indossando  calzoni  e  tunica  bianchi,  variamente  bordati.  Quando  verso  la  fine  del  1600  le  compagnie  dei  comici  divennero  molto  numerose,  i  rispettivi  Zanni  per  distinguersi  da  quelli  delle  compagnie  rivali  o  da  quelli  che  li  avevano  immediatamente  preceduti  in  una  piazza,  assunsero  un  nome  specifico  d’arte  che  richiamava  un  particolare  del  vestito  o  della  maschera.  Lo   Zanni  che  divenne  Arlecchino  si  distinse  per  aver  fatto  ricucire  qua  e  là  sulla  tunica  bianca  e  sui  calzoni  toppe  geometriche  di  vario  colore  che,  più  tardi  furono  ricamate  o  tessute  in  modo  più  regolare,  non  più  su  fondo  bianco,  dando  luogo  ad  una  stoffa  vivacissima  che  rendeva  il  costume  oltremodo  gioioso  ed  inconfondibile.  Arlecchino   è   Arlequin  italianizzato,  nome  che  pare  adottasse  a  Parigi  l’attore  Giovanni  da  Bergamo,  più  precisamente  nell’Hotel  Bourgogne  che,  per  i  successi  ivi  ottenuti  dalle  compagnie  italiane  che  vi  si  erano  susseguite  si  chiamò  ”  Comèdie  Italienne”.

Arlequin,  con  le  sue  lunghe  dissertazioni  senza  capo  nè  coda,  i  vivaci  monologhi,  la  freschezza  e  naturalezza  del  semplice  linguaggio,  l’espressione  sgomenta  per  non  riuscire  a  portare  a  termine  un  discorso  troppo  difficile,  strappò  applausi  alle  platee  di  Spagna,  d’Austria,  di  Olanda,  d’Inghilterra.  La  Francia,  dov’era  nato  gli  decretò  una  simpatia  incondizionata:  re  e  regine  se  lo  contesero  pur  di  averlo  alla  loro  mensa,  da  cui  ritornava  sempre  carico  di  doni  preziosi,  piatti  e  posate  d’oro,  mentre  il  clero  lo  criticava  aspramente  per  i  suoi  lazzi  e  frizzi  audaci  e  ne  pretendeva  l’espulsione.  Caduto  con  la  Rivoluzione  Francese  l’Hotel  de  Bourgogne,  roccaforte  dei  successi  di  Arlequin,  questi  passò  a  divertire  il  pubblico  italiano.  Nei  nostri  teatri  mandò  in  visibilio  grandi  e  piccini,  ma  soprattutto  gli  spettatori  del  loggione,  popolarmente  detto  ”lubbione”,  che  ridevano  a  crepapelle  di  fronte  alle  acrobazie,  alle  ”scalate”  e  relative  ”cascate”,  al  rialzarsi  improvviso  e  scattante,  ai  balzelli,  alle  mossette,  alle  riverenze  compitissime  della  prestigiosa  maschera.  Arlecchino  molto  conosciuto  in  Emilia  e  Lombardia  è  conteso  come  maschera  tra  Venezia  e  Bergamo;  è  certo  che  l’attore  che  per  primo  gli  diede  vita  è  bergamasco  ma  oggi  Arlecchino  può  dirsi    una  maschera  cosmopolita.  Oltre  che  in  molte  commedie  goldoniane  Arlecchino  è  presente  anche  in  opere  musicali  come  ad  esempio  in  ”  Maschere”  di  Pietro  Mascagni  e   i  ”Pagliacci”  di  Ruggero  Leoncavallo.

fonte :  Lavoriamo insieme-  Margherita  Filippi


Ma  sì,  chiamiamolo  così  almeno  una  volta.  Ora   che   i   Re   Magi  son   giunti   a  destinazione   per   adorare   il   ”Bambinello” che   si  manifesta  al  mondo  intero,  chiamiamolo  ”asinello” e   non  ”asino”

”La  notte  della  Befana,  nella  stalla,  parla  l’asino, il  bove,  la  cavalla”.

Dice  così  un  vecchio  proverbio  diffuso  particolarmente  in  Romagna  e  Toscana.  Perchè  secondo  una  credenza  popolare,  è  questo  il  momento  in  cui  l’asino  ha  la  sua  rivincita:  ottiene  per  una  notte  il  dono  della  parola,  e  può  parlare  male  dei  suoi  padroni. Anche  nella  notte  di  Natale  ha  la  sua  importanza  perchè  col  suo  fiato  riscalda  il  piccolo  Gesù.    Ma  al  di  là  di  questi  due  momenti  di  ”gloria”, tutti  gli  altri  giorni  questo  animale  è  un  pò  trattato  male:  comunemente  indicato  come  simbolo  dell’ignoranza,  della  testardaggine,  poco  intelligente  e  passivo.  e  allora  ne  vogliamo  conferma?

Cominciamo…

”Essere  un  asino”,  ”comportarsi  da  asino”,  o  ancora  ”essere  un  asino  calzato  e  vestito”,  ”pezzo  d’asino”,  ”testardo  come  un  asino”,  modi  ingiuriosi  entrati  nel  linguaggio  comune  per  dire  che  una  persona  è  rozza  o  poco  colta.

”Far  come  l’asino  di  Buridano”  si  usa  invece  per  chi  è  un  eterno  indeciso:  un  racconto  attribuito  proprio  a  Buridano,  filosofo  della  prima  metà  del  XIV  secolo,  racconta  di  un  asino  che  non  riusciva  a  decidersi  tra  due  mucchi  di  fieno  posti  alla  stessa  distanza e  proprio  questa  sua  incertezza  sullo  scegliere  quale  dei  due  fosse  il  migliore  come  cibo,  ne  causò  la  morte  per  fame.

Anche  il  modo  di  dire  ”calcio  dell’asino”  ha  radici  nella  letteratura  e  indica  un  atto  vile  di  chi  colpisce  qualcuno  che  non  è  in  grado  di  difendersi. Il  ”detto”  si  rifà  ad  una  favola  di  Esopo,   in  cui  un  asino  diede  un  calcio  ad  un  leone  che  stava  morendo .  E  non  è  tutto:

”Far  credere  che  un  asino  voli”  significa  inventare  cose  impossibili,  del  tutto  astruse.

”Raglio  d’asino  non  giunse  mai  in  cielo”  è  un  proverbio  che  mette  in  guardia:  le  proteste  e  rimostranze  di  una  persona  ignorante  spesso  rimangono  inascoltate.

”Legar  l’asino  dove  vuole  il  padrone”  calza  per  chi  esegue  un  compito  in  modo  passivo  e  non  si  chiede  il  perchè  delle  cose  che  sta  facendo,  non  volendo  avere  fastidi.

Insomma  un  animale  bistrattato  troppo  spesso  anche  insultato  dimenticando  che  la  sua  notevole  pazienza  gli  ha  dato  anche  modo  di  essere  utilizzato  per  il  recupero  di  bimbi  handicappati, o  come  bestia  da  soma.

Allora  ogni  tanto  ricordiamoci  di  lui  e  chiamiamolo,  salutandolo  e  rimettendolo  nello  scatolone  assieme  a   tutte   le   cose  del  presepe  :   ”Ciao  asinello,  ci  vediamo  il  prossimo  anno”.

E  oggi  che  il  Signore  si  è  manifestato  ai  Re  Magi e  al  mondo  intero,  lasciamo  che  entri  nei  nostri  cuori  e  ci  accompagni  per  tutto  il  2015.

Buona   Epifania  a  tutti  e   che  la  Befana  abbia  portato  dolcetti  e  non  carbone.

fonte:   da  un  articolo  di  Ilaria  Pace

Cari  amici  dopo  aver  scritto  in  questo  periodo  moltissimo,  avendo  pronti  altri  due  post  che  pubblicherò  più  in  là,  voglio  prendermi  un  pò  di  riposo  visto  che  incomincia  per  me  un  periodo  molto  impegnativo  che  penso  mi  terrà  un  pò  lontana  da  voi :    periodo   che  mi  vedrà  diventare  la  baby  sitter  di  Arianna.   Se  avrò  tempo  non  mancherò  di  rifarmi  viva.  Vi  abbraccio  tutti  con  forte  simpatia.  Isabella


Cari  siori,  per  non  far  torto  a  nissun,  ecco  qua  una  golosità  tipica  veronese  delicata,  soffice  che  mi  vede  sua  estimatrice  convinta  :  sua  maestà  il  PANDORO.

Non  potevo  perciò  non  parlarne, viste  anche  le  mie  origini  venete (  pur  essendo  nata  a  Roma)  e  visto  che   tanti  lo  preferiscono  al  panettone. Quindi  per  giustizia  ecco  qua qualche notizia a riguardo.

Questo  dolce  regale  ha  una  storia  legata  ad  aneddoti  e  leggende,  ma  l’attuale  versione  del  pandoro  risale  in  verità  all’ottocento  come  evoluzione  del  ”nadalin’‘  il  duecentesco  dolce  della  città  di  Verona  creato  per  festeggiare  il   primo  Natale  della  città  sotto  la  signoria  della  Famiglia  della  Scala.   Rispetto  al  pandoro  vero  e  proprio,  è  meno  burroso  e  fragrante,  ma  più  compatto  e  dolce.  Esso  è  più  basso,  ma  non  ha  una  forma  precisa.  Molti  veronesi  sono  a  lui  legati  considerandolo  come  il  dolce  più  legato  alle  origini  e  tradizioni  della  città.  Per  quanto  riguarda  invece  il  nome  di  ”Pandoro”   e  alcune  delle  sue  peculiarità,  queste  risalirebbero  ai  tempi  della  Repubblica  Veneziana  (  prospera  nel  Rinascimento  fino  all’esibizionismo,  grazie  al  commercio  con  l’Oriente),  dove  sembra  tra  l’offerta  di  cibi  ricoperti  con  sottili   foglie  d’oro  zecchino,  ci  fosse  anche  un  dolce  a  forma  conica  chiamato  ”Pan  de  oro”.

Un’altra  storia  assegna  la  maternità  del  pandoro  alla  famosa  brioche  francese,  che  per  secoli  ha  rappresentato  il  dessert  della  Corte  dei  Dogi.

In  ogni  caso  c’è  una  data  che  sancisce  ufficialmente  la  nascita  del  pandoro,ed  è  il  14  ottobre  del  1884,  giorno  in  cui  Domenico  Melegatti  depositò  all’ufficio  brevetti,  un  dolce  dall’impasto  morbido  e  dal  caratteristico  stampo  di  cottura  con  forma  di  stella  troncoconica  a  otto  punte,  opera  dell’artista  Dall’Oca  Bianca,  pittore  impressionista.

Ed  ora  correte  tutti  a  mangiare  ciò  che  è  rimasto  di  questi  dolci  natalizi,  e  mi  raccomando  non  dimenticate  di  aggiungere  al  presepe  i  Re  Magi.  Sono  lungo  la  strada  seguendo  la  stella  cometa  per  arrivare  e  adorare  il  ”piccolo”  (  ma  Grande )  appena  nato.

fonte:  Sale  e  Pepe.   Wikipendia

Dedicato  all’amico  Giancarlo  (  blog  Vivere  per  Amare)


Avete  mai  notato  come  i  milanesi,  quando  si  tratta  del  Buon  Mangiare,  siano  soliti  usare  gentili  vezzeggiativi?   Le  polpette  ad  esempio  diventano  ”pulpetin”,  il  pane  ”panett  o  michett”  le  rane ”ranine”,   insomma  una  curiosa,  simpatica  mania  che  ha  caratterizzato  nel  dire,  anche  un  pane  straordinario,  più  grosso  del  normale ,  ma  soprattutto,  particolarmente  ricco,  invitante,  ghiotto:  il ” Panetùn” meglio  conosciuto  come   ”Panettone”.

Cosa  sarebbe  il  Natale  senza  questo  dolce  sulle  nostre  tavole  imbandite  nei  giorni  delle  festività ?  E’  pur  vero  che  si  attornia  di  altri  degni  colleghi  quale  il  genovese  pan  dolce,  il  veronese   pandoro,  il  senese  panforte,  l’altoatesino  zelten , tutte  prelibatezze  per  il  nostro  palato,   vecchie  deliziose  glorie  intramontabili,  nate  tutte  ,  più  o  meno,  intorno  all’anno  Mille,  ai  tempi  delle  crociate,  delle  sete  preziose,  delle  spezie  raffinate,  dello  zucchero,  della  frutta  candita,  dell’uva  passa,  dei  pinoli  ,  anche  se  oggi  si  tende  per  lo  più  ad  arricchire  di  scaglie   di  cioccolato  ed  altre  creme  questi  dolci  unici.  In  origine  ”el  Panatùn”  veniva  generalmente  consumato  quasi  come  un  cibo  di  rito,  proprio  alla  vigilia  di  Natale  ”mentre  nel  camino  ardeva  un  ceppo  ornato  di  fronzoli  e  mele.”  Secondo  le  cronache  del  tempo  ”in  quell’occasione,  il  capo  famiglia  tagliava  a  fette  quel  grosso  pane  e  tutti  lo  mangiavano  con  devozione,  conservando  le  croste,  che  servivano  come  panacea  contro  il  mal  di  gola.”Secondo  una  leggenda,  fu  un  certo  Antonio,  detto  ”Toni”,  il  primo  che  ebbe  l’idea  di  aggiungere  all’acqua  e  farina  dell’impasto  di  questo  pane  un  pò  d’uva  passa  e  forse  del  miele.  Un  primo,  timido  passo,  che  bastò  per  battezzarlo  col  nome  di  ”pan  de  Toni” e  quindi  più  tardi :  ‘‘Panettone”.  Siamo  nel  vago  ma  si  sa  le  leggende  si  accontentano  di  poco.  Per  altri  sarebbe  stato  un  certo  Ughetto  Antellano,  nobile  milanese  vissuto  ai  tempi  di  Ludovico  il  Moro,  verso  la  fine  del  1400,  ad  aver  avuto  la magica  idea.  Infatti  si  racconta  che  innamoratosi  di  una  certa  Adalgisa, fornaia,  messer  Ughetto  si  sarebbe  finto  fornaio  anch’esso, e  per  stupire l’amata  si  dice  che  riempisse   quel  povero  pane  tozzo  e  grosso  di  ogni  più  ricca  leccornia,  fino  a  sedurre  la  sbalordita  Adalgisa.  Non  si  sa  comunque  se  tutto  finì  bene  e  se  vissero  felici  e  contenti,  sembra  che  l’Adalgisa  a  parte  la  seduzione  del  panettone,  sia  poi  scappata  con  un  altro  ma  poco  importa.  Quello  che  conta  è  ciò,  che  rimanendo  scritto  su  ”carta”  si  tramanda  a  noi , ed  ecco  allora  il  grande  Cristoforo  da  Messisburgo,  al  servizio  di  Ippolito  d’Este,  a  Ferrara,  che  verso  la  metà  del  1500  così  scrive  nel  suo  ricettario :  ”pani  di  latte  e  zuccaro  con  aggiunta  di  tuorli  d’ove  ,  burro  e  acqua  di  rose”. Sarà  questo  il  ”Panatùn” ?

E  il ” gateau  de  Milan”,  prediletto  da  Caterina  de’  Medici che  doveva  nel  1533  andare  in  sposa  ad  Enrico  II  di  Francia  per   diventare  poi  regina  dei  francesi  nel  1547,  non  era  forse  già  il  nostro  panettone?  Chissà…

La  prima  testimonianza  seria  arrivò  probabilmente  un  secolo  più  tardi  nel  1650,  quando  un  medico  bolognese,  certo  Vincenzo  Tanara,  autore  del  trattato  ”L’economia  del  cittadino  in  villa”  scrive  a  pag.  30  ”I  nostri  cittadini  con  minor  spesa  impastano  con  lievito  acqua  mielata  (  miele  diluito)  incorporandovi  dentro  uva,  zucca  candita  in  miele  e  ne  fanno  un  grosso  pane,  quale  chiamano  Pan  di  Natale.” Ecco,  questa  è  la  ricetta  base  da  cui  partire. Il  miele  più  tardi  sarà  sostituito  dallo  zucchero  e  altri  ingredienti  compariranno,  ma  la  formula  è  quella:  un  dolce  dalla  forma  tozza,  schiacciata.  Finchè  un  giorno  negli  anni  Venti,  arriverà  il  colpo  d’ala  del  genio,  quasi  un’altra  leggenda,  ma  che  in  realtà  è  storia :  storia  vera,  rivoluzionaria, della  gastronomia  o  meglio  della  pasticceria.  Arriva  Angelo  Motta,  di  Villa  Fornaci,  figlio  di  un  cocchiere,  classe  1890,  emigrato  a  Milano  all’età  di  10  anni,  che  una  ventina  d’anni  dopo,  nel  suo  forno  di  via  Chiusa,  ”trasforma ”  il  panettone  da  basso  in  alto,  intuisce  il  colpo  magico  della  super- lievitazione,  senza  trascurare  il  valido  sostegno  di  quella  voluttuosa  ”  guepiere”   o  ”busto  di  carta  oleata”.  Collega,  amico  e  rivale,  apparirà  pure  sulla  scena  un  altro  grande,  Gino  Alemagna  di  Melegnano,  di  famiglia  modesta,  nato  maestro  pasticcere. Inizierà  così  la  grande  epopea  del   panetùn  che  da  Milano  conquisterà  l ‘Italia  e   sarà   spedito  in  tutto  il  mondo.

Allora  a  questo  punto,  buon  appetito  a  tutti  con  una  buona  fetta  di  panettone. (  A  me  non  piace  molto  l’uvetta  e mi piacciono poco i canditi,  per  cui  preferisco, viste  anche  le  mie  origini,  il  pandoro,  ma  questa  è  un’altra  storia. )

RAGAZZI   DIMENTICAVO :   BUON  2015 A  TUTTI

fonte:  da  un  articolo  di  Carlo  Tosi